Giurisprudenza (26)
Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 25-11-2021) 29-03-2022, n. 2297
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5969 del 2015, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Anna Ingianni, Giovanni Maria Lauro e Cecilia Savona, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di Macomer, non costituito in giudizio;
nei confronti
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Mauro Barberio e Stefano Porcu, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) n.-OMISSIS-/2014, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 novembre 2021 il Cons. Francesco De Luca e udito per le parti l'avvocato Stefano Porcu;
Svolgimento del processo
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, il Sig. -OMISSIS- appella la sentenza n. -OMISSIS- del 2014, con cui il Tar Sardegna ha rigettato il ricorso e i motivi aggiunti di primo grado, diretti ad ottenere l'annullamento:
a) del silenzio rifiuto serbato dall'Amministrazione resistente sulla domanda di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, relativamente ad un edificio, già oggetto di concessione edilizia n. 60/2005 successivamente annullata, sito in M.;
b) della Det. n. 2547 del 30 novembre 2010, prot. n. (...), con cui il Comune di Macomer ha rigettato la domanda di accertamento di conformità presentata dalla parte ricorrente, nonché dell'ordinanza di demolizione n. 119/2010, prot. n. (...) relativa al medesimo edificio siti in M.;
c) del verbale di accertamento tecnico comunale n. 10213 del 10.5.2011, dell'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 119/2010 cit., nonché dell'ordinanza di demolizione n. 62 del 15.6.2011, relativamente all'immobile distinto al catasto urbano di M. al foglio (...), mapp. (...), sub da (...) a (...);
d) del verbale di accertamento tecnico comunale n. 21794 del 14.10.2011 di accertamento dell'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 62/2011;
e) dell'ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale n. 45 del 16.4.2012;
f) di tutti gli atti connessi.
Secondo quanto dedotto in appello:
- il Sig. -OMISSIS- ha ottenuto dal Comune di Macomer il rilascio della concessione edilizia n. 60 del 2005, avente ad oggetto la realizzazione di un edificio nella via I., insistente su un più ampio lotto di complessivi mq 3.945 catastali, avente destinazione urbanistica B5 (di completamento residenziale) ai sensi del Piano regolatore generale;
- sul medesimo lotto preesisteva un altro complesso residenziale, di superficie coperta pari a mq 1.488,44, realizzato dal ricorrente nel 1989/1991 sulla base delle concessioni edilizie n. 79 del 5.9.1989 e n. 67 del 21.6.1991;
- il Sig. -OMISSIS-, proprietario confinante, ha impugnato la concessione edilizia n. 60/2005 con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;
- con D.P. del 29 ottobre 2009, reso sulla base del parere espresso da questo Consiglio di Stato -motivato sul rilievo per cui la nuova superficie coperta, assentita con concessione edilizia n. 60/2005, sommata a quella degli altri corpi di fabbrica preesistenti, risultava tale da determinare il superamento del rapporto massimo di 0,5 tra superficie complessiva del lotto e superficie coperta previsto dall'art. 12, sub (...), NTA del Piano Particolareggiato, in applicazione del principio del lotto urbanisticamente unitario - il ricorso straordinario proposto dal Sig. -OMISSIS- è stato accolto e, per l'effetto, il titolo edilizio impugnato è stato annullato;
- di conseguenza, l'Amministrazione comunale ha adottato l'ordinanza n. 36 del 2020, disponendo la demolizione delle opere di cui alla concessione edilizia n. 60/2005, da ritenere abusive in quanto realizzate sulla base di un titolo ormai annullato in sede straordinaria;
- in data 29.7.2010 il Sig. -OMISSIS- ha presentato istanza di accertamento di conformità, rilevando che, sebbene l'Amministrazione comunale avesse impresso ad una parte del lotto (per 1013 mq) la destinazione a viabilità pubblica in base al Piano particolareggiato, la relativa acquisizione (comunque da indennizzare) non risultava mai avvenuta; la superficie di mq 1013 era infatti di proprietà del ricorrente, che aveva destinato la relativa porzione territoriale a viabilità per propria libera scelta; per l'effetto, l'Amministrazione avrebbe dovuto verificare la conformità del nuovo edificio, in relazione al rispetto della superficie massima insediabile sul lotto, avendo riguardo alla sua superficie complessiva comprensiva della porzione destinata a viabilità pubblica; il che avrebbe consentito di rispettare l'indice di massima superficie edificabile;
- il Comune ha comunicato all'istante il preavviso di rigetto, ritenendo ostativa la destinazione a viabilità pubblica della porzione di lotto di mq 1043, da scomputare dal calcolo della superficie coperta assentibile; l'istante ha controdedotto al preavviso di rigetto;
- stante la condotta inerte tenuto dal Comune, il Sig. -OMISSIS- ha proposto il ricorso di primo grado dinnanzi al Tar Sardegna, al fine di ottenere la condanna dell'Amministrazione a provvedere sull'istanza di accertamento di conformità;
- in pendenza di giudizio, il Comune con Det. n. 2547 del 2010 ha rigettato la domanda di accertamento di conformità, insistendo nelle ragioni ostative già illustrate nel preavviso di rigetto; con successiva ordinanza n. 119/2010 il Comune ha disposto la demolizione del fabbricato in parola;
- tali provvedimenti sono stati impugnati con motivi aggiunti proposti nell'ambito del giudizio pendente dinnanzi al Tar Sardegna;
- con verbale n. 10123 del 2011, redatto dal tecnico comunale, è stata accertata l'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 119 del 2010 e con successiva nota n. 122242 dell'8.6.2011 il Comune ha avvisato l'interessato circa la sussistenza delle condizioni per l'acquisizione del fabbricato abusivo al patrimonio comunale;
- con ordinanza n. 62 del 2011 l'obbligo di demolizione è stato esteso nei confronti di un acquirente di uno degli appartamenti componenti l'edificio de quo;
- con ulteriori motivi aggiunti il ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza n. 62/2011, con cui l'Amministrazione, in sostituzione rispetto a quanto disposto con la pregressa ordinanza n. 119/10, aveva provveduto ad una nuova regolazione del rapporto sostanziale;
- con verbale n. 21794 del 14.10.2011 il tecnico comunale ha accertato la mancata ottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 62/11 e con successiva nota l'Amministrazione ha avvisato gli interessati della sussistenza delle condizioni per l'acquisizione al patrimonio comunale del relativo fabbricato abusivo;
- con ulteriori motivi aggiunti il ricorrente ha chiesto l'annullamento di tali ultimi provvedimenti;
- con ordinanza n. 45 del 2012 il Comune ha disposto l'acquisizione dell'immobile al proprio patrimonio;
- anche tale atto è stato impugnato con ultimi motivi aggiunti;
- in sede penale il ricorrente è stato condannato con sentenza del Tribunale di Oristano per il reato di cui all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001; con successiva sentenza della Corte di Appello di Cagliari il medesimo reato è stato dichiarato prescritto;
- il primo giudice ha dichiarato l'improcedibilità delle censure dirette contro l'ordinanza n. 119/10 (in quanto superata dall'ordinanza n. 62/2011), nonché contro il verbale tecnico comunale n. 10213/2011 e la nota comunale n. 12242/11 (in quanto superati e sostituiti per l'effetto dell'emissione della nuova ordinanza n. 62/2011), mentre ha rigettato le censure dirette contro i rimanenti atti amministrativi.
2. Il ricorrente ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l'erroneità, in specie in relazione al capo decisorio con cui il primo giudice ha ritenuto legittimo il diniego di accertamento di conformità, stante l'impossibilità di computare, ai fini del calcolo della superficie complessiva del lotto, la porzione destinata a viabilità di mq 1043.
3. Il Sig. -OMISSIS-, interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, si è costituito nel presente grado di giudizio, resistendo all'appello.
4. Le parti hanno argomentato a sostegno delle rispettive conclusioni con il deposito di memorie conclusionali. L'appellante ha pure replicato alle avverse deduzioni.
5. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza del 25 novembre 2021.
Motivi della decisione
1. Pregiudizialmente, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità opposte dal Sig. -OMISSIS- nella propria memoria conclusionale.
1.1 In particolare, secondo l'odierno appellato, l'appello e, ancora prima, il ricorso di primo grado e i successivi motivi aggiunti, sarebbero inammissibili, in primo luogo, perché diretti a rimettere in discussione le statuizioni contenute nel D.P.R. del 29 ottobre 2009 di accoglimento del ricorso straordinario proposto avverso la concessione edilizia n. 60/2005 cit., che avrebbe già accertato la violazione del rapporto di copertura previsto dal Piano Particolareggiato comunale. Il Tar Sardegna avrebbe errato nel rigettare tale eccezione -comunque riproponibile in appello in quanto rilevabile d'ufficio-, in quanto le contestazioni attoree, tendendo a rimettere in discussione la decisione presidenziale e l'accertamento ivi contenuto, violerebbero il relativo giudicato.
L'appello sarebbe parimenti inammissibile per difetto di interesse, in quanto l'appellante non avrebbe impugnato la deliberazione del Consiglio comunale n. 58 del 2014, con cui l'immobile è stato destinato ad edilizia residenziale pubblica, né le determinazioni con cui gli alloggi ivi insistenti sono stati assegnati a diversi soggetti. Per l'effetto, non potendo l'appellante tornare nella disponibilità del fabbricato in caso di esito favorevole del giudizio, non potrebbe riscontrarsi nella specie alcun interesse al relativo ricorso.
1.2 Le eccezioni di inammissibilità non possono trovare accoglimento.
1.3 In particolare, fermo quanto si osserverà infra nella disamina del merito della controversia, l'eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del giudicato formatosi sul D.P. del 29 ottobre 2009 - recante l'accoglimento del ricorso straordinario proposto contro la concessione edilizia n. 60/2005 cit. - è preclusa, in quanto oggetto di statuizioni giudiziali, rese dal primo giudice, non impugnate in appello.
Il Tar, infatti, prendendo posizione su un'analoga eccezione sollevata in primo grado, ha escluso la violazione del ne bis in idem, in quanto "di fronte al Capo dello Stato si è discusso della concessione edilizia n. 60/2005 inizialmente ottenuta dall'odierno ricorrente, mentre in questa sede lo stesso impugna il diniego della successiva richiesta di concessione in sanatoria (ancorata a presupposti normativi in parte differenti), nonché i conseguenti atti di demolizione e acquisizione del bene al patrimonio comunale, sui quali, peraltro, solleva anche censure autonome e non di mera illegittimità derivata; pertanto i due giudizi, benché tra le stesse parti e sul medesimo bene, riguardano un thema decidendum formalmente e sostanzialmente diverso".
Per l'effetto, tenuto conto che tale capo decisorio non è stato impugnato, il Sig. -OMISSIS- non può, attraverso la riproposizione di un'eccezione rigettata dal primo giudice, nuovamente mettere in discussione l'ammissibilità del ricorso di primo grado per violazione del divieto del bis in idem, essendo maturato sulla relativa questione il giudicato interno, con conseguente irretrattabilità della decisione al riguardo assunta dal primo giudice.
Non potrebbe argomentarsi diversamente neppure valorizzando la natura dell'eccezione di inammissibilità per violazione del divieto del bis in idem, non riservata all'iniziativa della parte, ma rilevabile anche d'ufficio dal giudice procedente.
La possibilità di opporre in grado di appello eccezioni rilevabili d'ufficio, ammessa dall'art. 104, comma 1, c.p.a. deve, infatti, essere coordinata con i principi che presiedono alla formazione del giudicato - strumentali alla realizzazione delle esigenze di certezza giuridica - e con gli oneri di riproposizione dettati dall'art. 101, comma 2, c.p.a.
L'appello non configura infatti un novum iudicium ma una revisio prioris istantiae (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. IV, 3 febbraio 2020, n. 844), con la conseguenza che il thema decidendum su cui è chiamato a statuire questo Consiglio è definito, anziché dal ricorso dinnanzi al Tar, dal ricorso in appello, cui deve aversi riguardo al fine di garantire la corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
In particolare, la parte è chiamata a dedurre specificatamente i fatti costitutivi delle proprie domande ed eccezioni, in forma di specifica critica delle sfavorevoli statuizioni rese dal primo giudice.
La riproposizione dell'eccezione, invece, ai sensi di quanto previsto dall'art. 101, comma 2, c.p.a., è ammessa solo in relazione a questioni non decise dal primo giudice, in relazione alle quali, difettando una statuizione da impugnare, l'onere esigibile dalla parte processuale non potrebbe essere quello della contestazione di una (inesistente) decisione di primo grado, ma soltanto quello della tempestiva riproposizione dell'eccezione non esaminata dal Tar affinché il giudice di appello, per la prima volta, statuisca sulle relative deduzioni.
A fronte di una sentenza di rigetto dell'eccezione, pertanto, la parte che sia risultata soccombente in relazione a tale questione, è onerata alla tempestiva impugnazione dell'eccezione rigettata, altrimenti consolidandosi le statuizioni di prime cure, con conseguente passaggio in giudicato (interno) del relativo capo decisorio.
Come precisato da questo Consiglio (tra gli altri, sez. III, 19 agosto 2021, n. 5931), infatti, il divieto del c.d. ius novorum in appello non si estende alle eccezioni e questioni processuali e sostanziali che siano rilevabili anche d'ufficio, fatti salvi, tuttavia, gli effetti del giudicato interno sulla statuizione recata sul punto dalla sentenza di primo grado (fermo lo speciale regime delle questioni di giurisdizione e competenza delineato dagli artt. 9 e 15 c.p.a.).
Di conseguenza, si conferma che, in assenza di impugnazione del capo decisorio con cui il Tar ha rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del ne bis in idem, la relativa decisione è divenuta ormai irretrattabile (per la formazione del giudicato interno), non potendo essere nuovamente delibata in sede di gravame; ne deriva l'inammissibilità della riproposizione della eccezione de qua, come correttamente rilevato dal ricorrente nella propria memoria di replica.
1.4 Non può essere accolta neppure la seconda eccezione di inammissibilità opposta dal Sig. -OMISSIS-, tenuto conto che la decisione dell'Amministrazione comunale di destinare l'immobile per cui è causa ad edilizia residenziale pubblica e le conseguenti determinazioni di assegnazione dei relativi alloggi risultano ancora sub judice; il che consente di escludere la sopravvenuta emersione di un assetto amministrativo definitivo, ostativo alla piena realizzazione dell'interesse sotteso alla proposizione dell'odierno appello.
In particolare, l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse presuppone il sopravvenuto mutamento, in pendenza di giudizio, dell'assetto di interessi attuato tra le parti, in maniera da impedire la realizzazione dell'interesse sostanziale sotteso al ricorso, rendendo inutile la prosecuzione del giudizio - anziché per l'ottenimento - per l'impossibilità sopravvenuta del conseguimento del bene della vita ambito dal ricorrente.
Questo Consiglio, in particolare, ha subordinato la dichiarazione di improcedibilità ad una sopravvenienza (fattuale o giuridica) tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, per avere fatto venir meno, per il ricorrente, qualsiasi residua utilità, anche soltanto strumentale o morale, derivante da una possibile pronuncia di accoglimento (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 29 gennaio 2020, n. 742).
Nel caso di specie, il Sig. -OMISSIS- pretende di desumere la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso in capo all'odierno appellante dalla decisione dell'Amministrazione di assegnare l'immobile per cui è causa ad edilizia residenziale pubblica e dai successivi atti di assegnazione dei relativi alloggi.
Secondo la prospettazione dell'appellato, in particolare, tale decisione amministrativa precluderebbe al ricorrente, a prescindere dall'esito dell'odierno giudizio, di riottenere la disponibilità dell'immobile de quo, ragion per cui la proposizione e la coltivazione dell'appello sarebbe priva di utilità per la stessa parte appellante.
Invero, la legittimità della complessa operazione amministrativa di destinazione dell'immobile ad edilizia residenziale pubblica è ancora sub judice, in quanto censurata dallo stesso Sig. -OMISSIS- (come dedotto nella memoria conclusionale dell'appellato, in specie alle pagg. 5 e 6 in cui si richiama l'avvenuta proposizione di un ricorso e di motivi aggiunti "sul presupposto dell'illegittimità della destinazione del bene a uso pubblico", rigettati con sentenza n. 217/2017 appellata davanti a questo Consiglio di Stato con ricorso iscritto al n.r.g. 4234/2017); per l'effetto, non si è in presenza di un assetto amministrativo, sopravvenuto in pendenza del giudizio, rimasto inoppugnato e, dunque, ormai consolidatosi in danno del Sig. -OMISSIS-: è ancora possibile che la sopravvenuta decisione comunale, di imprimere all'immobile una destinazione incompatibile con la realizzazione dell'interesse sostanziale sotteso all'odierno appello (tendente a riottenere la disponibilità del manufatto, oggetto degli atti gravati in prime cure), sia annullata, con effetti suscettibili di estendersi anche alla posizione del Sig. -OMISSIS-.
La circostanza che l'impugnazione dell'atto di destinazione ad edilizia residenziale sia stata proposta dal Sig. -OMISSIS-, anziché dal Sig. -OMISSIS-, non è infatti idonea ad impedire l'estensione degli effetti caducatori di una eventuale pronuncia di annullamento anche in favore del Sig. -OMISSIS-.
Come rilevato dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio, "I casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sono, quindi, eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile - logicamente, ancor prima che giuridicamente - che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.
Utilizzando tale criterio, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune eccezionali ipotesi di estensione ultra partes degli effetti del giudicato. Tale estensione dipende spesso da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell'atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute.
Più nel dettaglio, secondo l'orientamento tradizionale, gli effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l'estensione.
Si ritiene, in particolare, che produca effetti ultra partes:
a) l'annullamento di un regolamento (l'efficacia erga omnes in questo caso trova una base normativa indiretta nell'art. 14, comma 3, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che, proprio presupponendo tale efficacia, prevede che il decreto decisorio di un ricorso straordinario che pronunci l'annullamento di un atto normativo deve essere pubblicato nelle stesse forme dell'atto annullato);
b) l'annullamento di un atto plurimo inscindibile (ad es. il decreto di esproprio di un bene in comunione);
c) l'annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari (ad es. il decreto di approvazione di una graduatoria concorsuale travolto per un vizio comune);
d) l'annullamento di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (ad es. il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale).
In tutti i casi indicati, tuttavia, l'inscindibilità riguarda solo l'effetto di annullamento (l'effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi la sopra richiamata situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri".
L'eventuale accoglimento dell'impugnazione proposta dal Sig. -OMISSIS- avverso la decisione comunale, recante l'assegnazione dell'immobile de quo ad edilizia residenziale pubblica, non potrebbe che produrre i propri effetti nei confronti di tutti coloro che abbiano una relazione qualificata con la res oggetto dell'atto annullato.
Il giudicato di annullamento si formerebbe, infatti, sul rapporto reale, riguardante la res litigiosa, rimuovendone la destinazione ad edilizia residenziale pubblica e riespandendo, per l'effetto, le facoltà dispositive della parte proprietaria; con la conseguenza che la rimozione del vincolo di destinazione opererebbe anche nei confronti della parte che, all'esito dell'odierno giudizio, dovesse risultare la proprietaria del manufatto per cui è causa.
Avuto riguardo al caso di specie, risulta infatti che il Sig. -OMISSIS- ha impugnato in primo grado, anche, l'atto di acquisizione al patrimonio comunale del manufatto de quo, sicché l'ipotetico annullamento di tale provvedimento comporterebbe la ricostituzione in capo al ricorrente del pieno diritto di proprietà; il Sig. -OMISSIS-, dunque, quale proprietario del bene risentirebbe degli effetti (per lui favorevoli) caducatori discendenti dall'ipotetico accoglimento del ricorso avverso la destinazione del medesimo bene ad edilizia residenziale, in quanto riacquisterebbe una res non più vincolata all'edilizia residenziale pubblica, con conseguente riespansione della propria sfera proprietaria.
In siffatte ipotesi, stante l'inscindibilità del rapporto reale, l'effetto del giudicato di annullamento di un atto limitativo delle facoltà proprietarie (stante l'imposizione di un vincolo di destinazione sulla res litigiosa) è suscettibile di produrre effetti nei confronti di tutti coloro che si trovino in una relazione qualificata con il bene, in primis la parte proprietaria.
Alla luce delle considerazioni svolte, non emergendo un sopravvenuto assetto di interessi definitivo, ostativo al conseguimento delle utilità ambite dal Sig. -OMISSIS- con l'accoglimento dell'odierno appello (riacquisto della piena proprietà di un immobile con riespansione, altresì, delle facoltà di suo godimento), non potrebbe riscontrarsi nella specie alcuna causa di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso.
2. Ciò premesso in ordine alle questioni di rito, è possibile soffermarsi sul merito della vertenza.
L'appello è diretto esclusivamente a contestare il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato le doglianze riferite al diniego di accertamento di conformità, ritenendo corretto l'operato amministrativo, tradottosi nell'esclusione, dal computo della superficie complessiva del lotto, della porzione destinata a pubblica viabilità. La riforma di tale capo decisorio travolgerebbe, in ragione dell'effetto espansivo interno della relativa pronuncia, tutti i capi dipendenti riguardanti gli atti comunali assunti sul presupposto del diniego di sanatoria (ivi compresi, l'ordine di demolizione, l'accertamento dell'inottemperanza dell'ordine demolitorio e il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale).
2.1 Secondo quanto dedotto dal ricorrente, il Tar avrebbe errato, in primo luogo, nel ritenere nella specie inconferente il principio del lotto urbanisticamente unitario.
Invero, la stessa Terza Sezione di questo Consiglio di Stato, nello statuire sul ricorso straordinario avverso la concessione edilizia n. 60/2005, avrebbe ritenuto violato il principio del lotto unitariamente unitario.
I frazionamenti, insuscettibili di minare l'unitarietà del lotto, non sarebbero soltanto quelli materiali, ma anche quelli giuridici, discendenti tanto dai passaggi di proprietà o catastali, quanto dalla disciplina attuativa urbanistica, rimanendo, comunque, il lotto unitario; per l'effetto, quando si discorre di frazionamento, si dovrebbe comprendere anche quello urbanistico derivante dal piano particolareggiato in esame.
Di conseguenza, dovrebbe ritenersi coperta dalla cosa giudicata l'applicazione nella specie del lotto urbanisticamente unitario: in applicazione di tale principio, le capacità insediative di un'area non soltanto non potrebbero ampliarsi, ma non potrebbero neppure essere ridotte; applicando il principio del lotto urbanisticamente unitario, non potrebbe, quindi, prendersi in considerazione il sub-frazionamento operato dal Comune con il Piano particolareggiato.
2.2 Il Tar avrebbe errato pure nell'escludere ogni rilievo alla zona urbanistica di riferimento - B5 di completamento residenziale - rilevante nella specie, caratterizzata dalla possibilità di costruire a prescindere da una convenzione di lottizzazione o da un'ulteriore pianificazione.
Il completamento dell'urbanizzazione non sarebbe né coerente né incoerente con la zonizzazione di completamento residenziale o con altra, ma solo con le concrete esigenze del territorio.
Tenuto conto della classificazione della zona quale zona B di completamento, l'indice di piano ivi previsto dovrebbe assumere natura fondiaria e non territoriale, in quanto l'indice di edificabilità territoriale sarebbe caratteristico delle zone C di espansione e di quelle assimilate. Per l'effetto, ai fini del calcolo di tutti gli indici, nella superficie fondiaria dovrebbero comprendersi anche le strade risultanti dal frazionamento disposto dal piano particolareggiato.
2.3 L'appellante insiste nel ritenere che il lotto urbanisticamente unitario non possa essere frazionato, con la conseguenza che il fondo da prendere in esame non sarebbe quello delineato dal Piano Particolareggiato, ma quello di proprietà del ricorrente, ricadente nella zona B di completamento con un indice fondiario non modificabile dallo strumento attuativo.
Il piano particolareggiato non potrebbe identificare un fondo differente dal compendio originario, facendosi questione di un indice che per le sue caratteristiche dovrebbe investire l'intera area classificata B dallo strumento urbanistico generale.
2.4 Il Tar avrebbe pure errato nel ritenere che l'area in esame, in quanto oggetto di vincoli di destinazione di natura espropriativa ormai decaduti, non legittimasse l'edificazione di alcuna volumetria, dovendosi, invece, avere riguardo alle possibilità legali ed effettive di edificazione sussistenti al momento dell'imposizione del vincolo; per l'effetto, rimarrebbe la classificazione come area B di completamento residenziale.
Non potrebbe argomentarsi diversamente sulla base dell'art. 9, comma 3, D.P.R. n. 327 del 2007 e dell'art. 9, D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di disposizioni che non classificherebbero l'area, come dimostrato dal fatto che in caso di espropriazione di applica il criterio residuale dell'edificabilità di fatto.
In ogni caso, gli indici di edificabilità che si azzererebbero sarebbero quelli in senso proprio, riferiti al rapporto tra mc e mq, ma non anche quello di copertura, rilevante nell'odierno giudizio: l'area destinata a viabilità sarebbe superficie esistente e ineliminabile sul piano fattuale, per l'effetto da computare al fine di determinare il rapporto tra superficie esistente e copertura consentita.
2.5 La parte ricorrente argomenta le proprie deduzioni anche sulla base di un precedente di questo Consiglio (n. 3106/2013), da cui troverebbe conferma il principio per cui non potrebbe sottrarsi ad un'area classificata "B" di completamento l'edificabilità riconnettibile alle superfici destinate spontaneamente a viabilità dall'originario unico proprietario, rimaste ancora di sua proprietà per mancata loro acquisizione al patrimonio comunale.
3. Le censure, afferenti al medesimo capo decisorio, suscettibili di trattazione unitaria per ragioni di connessione, sono infondate.
4. L'infondatezza discende, per una prima ed autonoma ragione, dall'accertamento di merito recato dal D.P. del 29 ottobre 2009, con cui è stato accolto il ricorso straordinario proposto contro la concessione edilizia n. 60/2005 cit.
4.1 Come osservato sopra, tale decreto non può essere più invocato nel presente grado di giudizio per censurare la violazione dell'effetto preclusivo discendente dal pregresso giudicato, avendo il Tar, con capo decisorio ormai irretrattabile perché non impugnato, negato che la parte ricorrente in primo grado avesse riproposto la stessa domanda rigettata in sede straordinaria, in violazione del divieto del bis in idem.
La possibilità, dunque, di fare valere tale decreto quale causa di inammissibilità del ricorso di primo grado (perché afferente ad una domanda già rigettata con pronuncia operante inter partes), non può formare oggetto di ulteriori doglianze esaminabili dal Collegio.
La preesistenza di un giudicato formatosi inter partes, tuttavia, può essere invocata in funzione conformativa dell'odierna decisione, essendosi in presenza di una questione - pure emergente dalle deduzioni dell'appellata, che ha valorizzato il pregresso accertamento svolto in sede straordinaria - non esaminata e decisa dal primo giudice: il Tar si è infatti limitato, nel rito, a riconoscere l'ammissibilità del ricorso per diversità delle domande proposte in sede straordinaria e giurisdizionale, ma non ha negato, nel merito, l'esistenza di un pregresso accertamento, reso in sede straordinaria, suscettibile di condizionare l'odierno giudizio ai fini della decisione delle diverse domande ivi proposte.
L'effetto conformativo del giudicato di annullamento è apprezzabile:
- tanto sul piano amministrativo, imponendo all'Amministrazione soccombente di assumere le determinazioni di competenza (relative alla stessa vicenda amministrativa in cui è stato adottato il provvedimento annullato in giudizio o ad altre vicende alla prima oggettivamente connesse) nel rispetto dei criteri direttivi discendenti dalla pronuncia di annullamento;
- quanto sul piano processuale, imponendo al giudice investito di una successiva causa vertente tra le stesse parti e riferita al medesimo rapporto amministrativo di conformarsi al precedente accertamento giurisdizionale, ove emergano questioni giuridiche o fattuali fondate su punti fondamentai comuni ad entrambe le controversie.
Come precisato dalla giurisprudenza ordinaria - con argomentazioni riferibili anche al processo amministrativo, in quanto espressione di principi processuali comuni in materia di giudicato - "qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo" (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2018, n. 11754).
Nel caso di specie, sussistono i presupposti perché il giudicato formatosi sul decreto presidenziale reso in sede straordinaria possa operare in funzione conformativa anche nell'ambito dell'odierno giudizio (sebbene relativo ad atti differenti, assunti pure sulla base di presupposti parzialmente diversi, come rilevato in maniera irretrattabile dal Tar nel rigettare l'eccezione di inammissibilità per violazione del ne bis in idem).
4.2 Al riguardo, in primo luogo, non può dubitarsi dell'idoneità del decreto presidenziale, reso a definizione di un procedimento per ricorso straordinario, di produrre effetti giuridici assimilabili a quelli del giudicato amministrativo, sia in funzione preclusiva della riproposizione delle medesime domande già decise in sede straordinaria, sia (per quanto di maggiore interesse nella presente sede) in funzione conformativa in relazione alla decisione di successive e diverse domande, proposte in sede giurisdizionale, aventi ad oggetto questioni giuridiche o fattuali su punti fondamentali comuni.
Questo Consiglio, infatti, ha riconosciuto la natura sostanzialmente giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, al fine di assicurare un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile con il ricorso innanzi agli organi di giustizia amministrativa ed in tale considerazione ha rilevato che "il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo" (Consiglio di Stato Sez. V, 22 aprile 2020, n. 2554).
Tali principi trovano, in particolare, applicazione in relazione ai decreti presidenziali pronunciati successivamente all'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, con cui sono state introdotte significative modifiche alla disciplina del ricorso straordinario, in specie con la previsione, da un lato, del carattere vincolante del parere reso dal Consiglio di Stato -essendo prescritto che il decreto del Presidente della Repubblica, che decide sul ricorso straordinario, deve essere adottato su proposta del Ministero competente, "conforme al parere del Consiglio di Stato" - dall'altro, della possibilità per il Consiglio di Stato di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale, manifestando in tale modo la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio giuridico in esame.
Né potrebbe differirsi la mutata natura del ricorso straordinario all'entrata in vigore del codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104 del 2010) che, tra l'altro, ha limitato la possibilità di ricorrere in sede straordinaria in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (con conseguente individuazione nella giurisdizione del presupposto di ammissibilità del ricorso straordinario al pari di quanto avviene per il ricorso "ordinario" al giudice amministrativo), ha esteso la legittimazione a presentare opposizione alla trattazione della controversia in sede straordinaria (in tale maniera garantendo la pienezza del contraddittorio), nonché ha compiutamente regolato la trasposizione alla stregua di una transatio iudicii (con conseguente emersione di procedimenti analoghi nella natura giuridica).
Le innovazioni introdotte con il codice del processo amministrativo, infatti, più che determinare la modifica della natura giuridica del rimedio in esame - da rimedio amministrativo a rimedio di giustizia, funzionale all'emissione di una decisione avente natura sostanzialmente giurisdizionale-, hanno accentuato ulteriormente la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, già discendente dalle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009.
La stessa giurisprudenza ordinaria (cfr. Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464), sebbene abbia valorizzato le modifiche normative intervenute nel 2009/2010 per argomentare in merito alla configurazione del decreto presidenziale, emesso all'esito del procedimento per ricorso straordinario, quale decisione di giustizia, ha evidenziato come "Il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) ha ulteriormente accentuato il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario in varie disposizioni", con la conseguenza che le innovazioni introdotte dal D.Lgs. n. 104 del 2010, come osservato, non sembrano avere determinato, avendo soltanto accentuato il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario già desumibile dal previgente assetto normativo, come delineato dalla L. n. 69 del 2009.
Del resto, è con la L. n. 69 del 2009 che, non soltanto è stata imposta l'emissione di un decreto presidenziale conforme al parere del Consiglio di Stato, consentendo dunque alla decisione conforme al parere di ripetere da quest'ultimo la natura di atto giurisdizionale in senso sostanziale, ma è stata pure prevista la possibilità per il Consiglio di Stato in sede straordinaria di sollevare questione di legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 23 L. n. 87 del 1953, il che è proprio dei giudizi dinnanzi all'autorità giurisdizionali.
La stessa Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 9 del 2013), pure valorizzando la rilevanza della riforma recata dal c.p.a:
- da un lato, ha precisato che "La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104", evidenziando, dunque, come il c.p.a., anziché determinare il mutamento della natura giuridica del rimedio, abbia corroborato la sua natura sostanzialmente giurisdizionale, per l'effetto già riconosciuta dalla previgente disciplina;
- dall'altro, ha ritenuto come assuma "rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale", tenuto conto che, "una volta acquisito che la paternità effettiva della decisione è da ricondurre all'apporto consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il provvedimento finale è meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l'atto finale della procedura è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato"; dimostrando, in tale maniera di riconoscere portata decisiva e, dunque, determinante alle innovazioni introdotte con la L. n. 69 del 2009 in ordine alla natura vincolante del parere di questo Consiglio in sede straordinaria e alla possibilità nella medesima sede di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Con successiva pronuncia l'Adunanza Plenaria (14 luglio 2015, n. 7) ha pure precisato che "la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all'autorità giurisdizionale. Ne deriva l'assenza di detto requisito sostanziale per le decisioni adottate in un regime caratterizzato, prima dell'entrata in vigore dell'articolo 69 della L. n. 69 del 2009, dalla concorrente paternità in capo all'autorità amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso un aggravamento procedurale, un avviso contrario a quello sostenuto nell'apporto consultivo del Consiglio di Stato", ad ulteriore conferma di come il discrimine nel trattamento giuridico del rimedio di giustizia sembri dato dalle innovazioni introdotti con la L. n. 69 del 2009, assumendo il D.Lgs. n. 104 del 2010 valenza rafforzativa di una natura sostanzialmente giurisdizionale del ricorso straordinario già riconosciuta con la L. n. 69 del 2009.
Per l'effetto, posto che, al fine di riconoscere la natura giurisdizionale alla decisione presidenziale assunta in sede di ricorso straordinario, occorre avere riguardo alla data di deposito del decreto, e non a quella in cui è stato depositato il ricorso introduttivo del giudizio (Cass. civ. Sez. V, Ord., 17 maggio 2019, n. 13389), il decreto presidenziale, con cui è stata annullata la concessione edilizia n. 60 del 2005, deve ritenersi idoneo al giudicato, in quanto depositato in data 29 ottobre 2009, successivamente all'entrata in vigore dell'art. 69 L. n. 69 del 2009 (4 luglio 2009).
Di conseguenza, tale decreto risulta idoneo a produrre effetti analoghi al giudicato amministrativo nei rapporti tra il Sig. -OMISSIS-, il Comune di Macomer e il Sig. -OMISSIS-, costituenti le parti tra cui è stata assunta la relativa decisione di giustizia (circostanza confermata dal doc. 1 in allegato al ricorso principale di primo grado, recante, altresì, la nota ministeriale di trasmissione del decreto presidenziale al Comune, al Sig. -OMISSIS- e al Sig. -OMISSIS-, rispettivamente amministrazione resistente, controinteressato e ricorrente).
4.3 Definita l'idoneità del D.P. del 29 ottobre 2009 a produrre effetti giuridici assimilabili a quelli del giudicato amministrativo, occorre procedere alla ricostruzione del suo ambito oggettivo, al fine di individuare l'effetto conformativo suscettibile di prodursi nell'ambito dell'odierno giudizio.
Al riguardo, al fine di delimitare la portata del giudicato e, dunque, individuare la regula iuris ritraibile dal precedente in esame, occorre procedere ad una lettura congiunta di dispositivo e motivazione, da correlarsi con la causa petendi introdotta dal ricorrente, intesa come titolo dell'azione proposta, e del bene della vita che ne forma l'oggetto ("petitum" mediato): il giudicato, in particolare, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, comprese le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia - che ne costituiscono il giudicato implicito - e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione - che costituisce il giudicato esplicito - formandone l'indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248).
Tenuto conto di tali coordinate ermeneutiche, il D.P. del 29 ottobre 2009 ha accolto il ricorso straordinario proposto avverso la concessione edilizia n. 60 del 2005 richiamano il parere n. 965/2009 espresso da questo Consiglio di Stato, con cui era stata ritenuta fondata la doglianza incentrata sulla "violazione dell'art. 12 sub 6 delle Norme di Attuazione del piano particolareggiato per la zona B5 e della tavola 21 - isolato 22 del P.P. Violazione dell'incide massimo di copertura (0,5). Violazione ed errata applicazione dell'art. 35 delle N.T.A. del Piano Particolareggiato. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti".
Questo Consiglio, in particolare, nel ricostruire la portata di tale motivo di ricorso, ha evidenziato come "l'istante sostiene che con la concessione impugnata sarebbe stato superato l'indice massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e superficie fondiaria previsto dall'art. 12 sub 6 delle norme di attuazione del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5, approvato con deliberazione consiliare n. 108 del 12.9.95. Ciò in quanto la superficie coperta complessiva andrebbe calcolata aggiungendo a quella in precedenza utilizzata quella delle costruzioni assentite con l'impugnata concessione n. 60, in conseguenza della quale il rapporto massimo di copertura supererebbe il prescritto indice di 0,5".
Questo Consiglio, ha dunque, rilevato che:
- la concessione edilizia n. 60 "attiene al lotto n. 7, con superficie di mq 1578, dell'isolato 22 A del Piano Particolareggiato. Sul lotto risultano edificati due corpi di fabbricato (A e D), assentiti con concessione edilizia n. 79/89, occupanti complessivamente una superficie coperta di mq 787,44";
- in forza dell'indice di copertura previsto per la zona dal Piano Particolareggiato (0,5 mq/mq), nel lotto, da considerare unitario, sarebbe stato, dunque, possibile realizzare una copertura di mq 789;
- la superficie coperta risultava pari a mq 787,44 già realizzati, ragion per cui l'intervento di cui alla concessione edilizia avrebbe determinato il superamento dell'indice di copertura;
- infatti, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua o la superficie coperta residua deve essere calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Risulta, dunque, incontrovertibile, in quanto integranti questioni e accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile di una decisione idonea a produrre effetti sostanzialmente giurisdizionali, che:
- l'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5, approvato con delibera consiliare n. 108/95, prescriveva un indice massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e superficie fondiaria (circostanze alla base del motivo accolto con il decreto presidenziale, dunque positivamente valutate con tale decisione di giustizia);
- la superficie da computare ai fini del calcolo dell'indice di copertura era di 1578 mq;
- la superficie già realizzata prima dell'adozione della concessione edilizia n. 60/05 risultava di 787,44, prossima a quella massima assentibile di mq 789, pari alla metà della superficie computabile ai fini del rispetto dell'indice di copertura (0,50 mq/mq);
- le opere assentite con la concessione edilizia n. 60 cit. avrebbero comportato la violazione di tale indice.
Gli accertamenti riguardanti l'estensione della superficie da computare al fine di rispettare l'indice di copertura delineato dall'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5 afferiscono ad una questione relativa ad un punto fondamentale comune all'odierno giudizio, vertente pur sempre sul rapporto amministrativo corrente tra il Comune di Macomer e il Sig. -OMISSIS- in ordine alla legittimità delle stesse opere edilizie (manufatto realizzato sulla base della concessione edilizia n. 60 cit., successivamente oggetto di istanza di accertamento di conformità).
Deve, dunque, ritenersi che tali accertamenti, in quanto coperti dal giudicato, non possano essere più rimessi in discussione nella presente sede, vincolando la decisione che il Collegio è chiamato ad assumere a definizione dell'odierno giudizio.
4.4 L'effetto conformativo del decreto presidenziale conduce al rigetto dell'appello, non sussistendo i presupposti per pervenire, in riforma della sentenza gravata, a riscontrare l'illegittimità del diniego di sanatoria impugnato con i primi motivi aggiunti di primo grado.
La parte ricorrente, infatti, censura l'erroneità della sentenza gravata, evidenziando come la superficie fondiaria da prendere in esame ai fini del calcolo dell'indice di copertura debba essere pari a mq 3.945, attesa la necessità di comprendervi anche la superficie di mq 1.013 destinata a viabilità ancora facente parte del lotto fondiario, urbanisticamente unitario.
Tali deduzioni, tuttavia, tendono a rimettere in discussione tra le stesse parti un accertamento già svolto in sede straordinaria, che, seppure riguardante un diverso provvedimento (concessione edilizia), afferisce comunque al medesimo bene immobile (opere realizzabili sulla base della concessione edilizia n. 60 cit.) e allo stesso indice di copertura rilevante nel presente giudizio: trattasi dell'accertamento in merito all'estensione della superficie da computare per determinare il limite di copertura operante nell'area per cui è causa.
Con il decreto presidenziale, in particolare, è stata già determinata tra le parti la necessità di computare una superficie di 1578 mq; trattasi di una premessa necessaria, costituente il fondamento logico-giuridico ineludibile del decreto presidenziale, di cui costituisce l'indispensabile presupposto, pertanto da ritenere compresa nella portata oggettiva del relativo giudicato.
Non potendo più controvertersi su tale questione, deve assumersi anche nella presente sede un'estensione della superficie rilevante per il calcolo dell'indice di copertura pari a 1578 mq.
Tale rilievo osta all'accoglimento dell'appello, avendo l'Amministrazione comunale correttamente negato l'accertamento di conformità delle opere de quibus, in quanto, in ragione dell'indice di copertura nella specie applicabile (0,5), considerata la superficie già edificata comunque da computare in ragione del principio del lotto urbanisticamente unitario (784,44 mq), nonché la superficie del lotto (rilevante per il calcolo dell'indice di copertura) già accertata nel pregresso giudicato (1578 mq) le opere oggetto dell'istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 (e art. 16 L.R. n. 23 del 1985) non avrebbero potuto essere sanate, in quanto occupanti una superficie coperta superiore al limite fissato dalla pertinente disciplina urbanistica applicabile all'area.
4.5 Come precisato da questo Consiglio, "l'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, non potendosi affatto accogliere l'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza medesima. Tale approdo, che richiede la verifica della 'doppia conformità', deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità" (tra le altre, Cons. Stato Sez. VI, 19 agosto 2021, n. 5948).
L'esigenza di tutela sottesa all'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 in commento è infatti quella di evitare interventi repressivi, qualora l'illecito in concreto commesso sia lesivo del solo interesse pubblico (strumentale) della sottoposizione al previo controllo amministrativo dell'attività edilizia, senza compromissione dell'interesse pubblico (finale) dell'ordinato sviluppo del territorio, nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia all'uopo applicabile. In tali ipotesi, si consente la permanenza delle opere mediante la formazione postuma, una volta commesso l'illecito e a sua sanatoria, del titolo edilizio idoneo a legittimare l'intrapresa attività edificatoria.
4.6 Avuto riguardo al caso di specie, poiché le opere oggetto dell'istanza di sanatoria occupavano una superficie superiore a quella assentitile sulla base della disciplina urbanistica recata dall'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5 - determinata in conformità all'accertamento pregresso recato dal D.P. del 2009, avente tra le parti effetti assimilabili al giudicato -, tali opere non avrebbero potuto essere realizzate, in quanto incompatibili con la disciplina urbanistica vigente al momento dell'esecuzione; con la conseguenza che le stesse opere non avrebbero neppure potuto essere sanate ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, come legittimamente disposto dall'Amministrazione comunale.
5. L'appello risulta, comunque, infondato anche per altre e autonome ragioni.
5.1 In primo luogo, il ricorrente intende proporre un'interpretazione della nozione di lotto urbanisticamente unitario che non trova fondamento nella giurisprudenza amministrativa e nella ratio sottesa al relativo istituto.
Questo Consiglio (tra gli altri, sez. V, 3 aprile 2019, n. 2215), infatti, ha precisato che:
- un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore (nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera e il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa, dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti: pertanto, quando un'area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell'intera area permane invariata, sicché, qualora siano già state realizzate sul lotto originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito;
- in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo;
- l'istituto dell'asservimento in senso tecnico si è configurato in seguito all'entrata in vigore del D.M. n. 1444 del 1968, con il quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall'art. 17 L. n. 765 del 1967 (introduttivo dell'art. 41-quinquies L. n. 1150 del 1942), limiti inderogabili di densità edilizia;
- in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all'adozione del primo piano regolatore generale di un comune, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia - territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e fondiaria (riferito al singolo lotto) -, in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un'ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell'area non edificata del lotto a servizio dell'edificio realizzato, in termini di complementarietà funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante;
- qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull'area discende ope legis, senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservino unitariamente alla realizzazione di un unico progetto;
- dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto, determinandone la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende ope legis dall'intervenuta utilizzazione del lotto medesimo (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2009, n. 3).
In particolare, l'operatività delle sopra esposte coordinate normative e giurisprudenziali dipende dall'accertamento delle seguenti circostanze, cumulativamente concorrenti:
(i) che il lotto originario sia unitario e unitariamente utilizzato, restando irrilevante il successivo evolversi dell'assetto della situazione proprietaria (atti di trasferimento), catastale (frazionamenti, piani particellari, accatastamenti, escorporazioni, ecc.);
(ii) che esista una norma di piano disciplinante la densità edilizia, oppure, in sua assenza, venga altrimenti individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di un'area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
5.2 La ratio sottesa alla definizione del lotto urbanisticamente unitario è, dunque, quella di evitare un'elusione della normativa sugli indici di edificabilità, impedendo che, a seguito della costruzione su una parte marginale di ogni area, si provveda ad un suo frazionamento in vista della richiesta di un nuovo titolo abilitativo legittimante l'edificazione sulla porzione rimasta libera, per poi procedere ad ulteriori frazionamenti in modo da edificare ogni volta sulle porzioni di area via via rimasti sgombri, computando gli indici di edificabilità in relazione, anziché al lotto originario, alle singole porzioni territoriali frazionate.
La natura unitaria del lotto, per l'effetto, rileva per rendere insensibili i frazionamenti proprietari e catastali rispetto all'applicazione degli indici di edificabilità - che devono operare in relazione al fondo originario, unitariamente considerato e utilizzato -, ma non ostacola l'esercizio del potere di pianificazione territoriale, anche in funzione riduttiva della capacità edificatoria di un fondo (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 novembre 2017, n. 5419), pure mediante il suo parziale assoggettamento a vincoli di destinazione pubblica.
Qualora il lotto sia sottoposto ad una differenziata disciplina urbanistica (discendente anche dai relativi strumenti attuativi), incentrata sulla previsione di vincoli di destinazione pubblica, la possibilità di considerare l'intera superficie realmente espressa dal lotto, lungi dal poter essere sempre riconosciuta - come sembrerebbe sostenere l'appellante che, facendo leva su una non condivisibile nozione di lotto urbanisticamente unitario, tende infondatamente a ritenere irrilevanti frazionamenti urbanistici nelle more disposti dagli strumenti di pianificazione attuativa - è subordinata alla tipologia di indice di edificabilità concretamente rilevante.
5.3 Nel caso di specie, si discorre dell'indice di copertura, espresso in termini di rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria: trattasi di definizione già assunta alla base del D.P. del 2019 cit., con cui -come osservato- è stato accolto un motivo di impugnazione incentrato proprio sulla violazione dell'indice di copertura di 0,5 (definito come rapporto "tra superficie coperta e superficie fondiaria previsto dall'art. 12 sub 6 delle norme di attuazione al Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5…" - parere n. 965/09 cit.), e, comunque, coerente con le previsioni del Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell'art. 4, comma 1-sexies del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, comunque invocabile quale parametro esegetico nell'interpretazione della pertinente disciplina edilizia.
Come rilevato da questo Consiglio, tale intervento è stato reso necessario al fine di "omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici comunali, rispondente o meno a specifiche indicazioni regolamentari o urbanistiche locali" (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 241). Il riferimento a tali definizioni uniformi risulta, quindi, utile al fine di individuare il paradigma cui ricondurre, almeno astrattamente, la fattispecie concreta, alla stregua di quanto emergente dalla documentazione in atti.
Per quanto più di interesse, anche il Regolamento edilizio-tipo conferma che l'indice di copertura è dato dal "rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria".
Al fine di assicurare il rispetto di tale indice, occorre, dunque, computare la superficie fondiaria, cui applicare il rapporto di copertura (come definito dalla disciplina urbanistica di riferimento), per individuare il limite di superficie suscettibile di essere coperta con l'edificazione.
Diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, tuttavia, la superficie fondiaria non corrisponde alla complessiva superficie reale del fondo oggetto di trasformazione urbanistica, ma soltanto alla superficie reale destinata all'uso edificatorio, al netto delle aree per dotazioni territoriali (in termini, cfr. Regolamento Tipo Edilizio cit.).
Del resto, come chiarito da questo Consiglio (sez. IV, 13 novembre 2018, n. 6397), la superficie territoriale e la superficie fondiaria rilevano differentemente in ambito urbanistico, a seconda che si faccia questione di una conformazione di un'intera zona omogenea ovvero di una singola area (o di un singolo lotto - Consiglio di Stato, sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2215): difatti, mentre l'indice di densità territoriale (che definisce la quantità massima di superficie o di volume edificabile su una data superficie territoriale), è riferibile a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, tendendo a definire il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona e venendo rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici o, per quanto più di interesse, quelli destinati alla viabilità, l'indice di densità fondiaria (che definisce la quantità massima di superficie o di volume edificabile su una data superficie fondiaria) è riferibile alla singola area, definendo il volume massimo edificabile sulla stessa. Tale ultimo indice risulta applicabile all'effettiva superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso pubblico.
L'indice di copertura, dunque, definendo un limite di estensione della superficie suscettibile di edificazione, non può essere computato tenendo conto, altresì, delle porzioni territoriali destinate ad uso pubblico.
5.4 Avuto riguardo al caso di specie, il lotto di proprietà dell'odierno ricorrente risultava soltanto in parte suscettibile di edificazione, risultando una sua porzione assoggettata dal piano particolareggiato ad un vincolo di destinazione a pubblica viabilità; con la conseguenza che tale porzione, in quanto insuscettibile di edificazione, non avrebbe potuto essere computata nell'ambito della nozione di superficie fondiaria e, dunque, non avrebbe potuto rilevare per il calcolo del rapporto di copertura per cui è controversia.
Il Comune, per l'effetto, una volta evidenziato che il piano particolareggiato di zona B aveva individuato in modo definitivo la viabilità, gli isolati e confermato l'indice di copertura nel 50% di superficie copribile, ha legittimamente escluso la possibilità di computare la superficie della viabilità ai fini delle volumetrie o degli standard di superficie coperta, non trattandosi di superficie fondiaria.
Di conseguenza, dovendo scomputarsi tale porzione territoriale, considerata la superficie già legittimamente realizzata in forza di titoli edilizi precedentemente rilasciati (787 mq), la superficie occupata dalle opere oggetto dell'istanza di sanatoria, sommata all'edificato esistente (in applicazione del principio del lotto urbanisticamente unitario), risultava superiore rispetto a quella ammissibile in base all'indice di copertura confermato dal Piano Particolareggiato; il che manifestava una violazione della relativa disciplina urbanistica ostativa all'accoglimento della domanda di accertamento di conformità
5.5 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure ritenendo che il vincolo di destinazione posto dal piano particolareggiato, risultando preordinato all'esproprio, fosse medio tempore decaduto.
La scadenza di un vincolo espropriativo non determina, infatti, la reviviscenza della previgente destinazione urbanistica (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8125), ma, nelle more dell'adempimento in capo all'ente locale dell'obbligo di normazione dell'area (la cui inosservanza potrebbe, peraltro, essere censurata in giudizio dalla parte privata), ne comporta una limitata edificabilità, nella misura stabilita dall'articolo 9, D.P.R. n. 380 del 2001 ovvero dalle diverse disposizioni di legge regionale ove esistenti.
Per l'effetto, non potendo ritenersi che la porzione territoriale soggetta a vincolo espropriativo decaduto (di pubblica viabilità) sia sussumibile sotto la disciplina urbanistica dettata per la zona B5, operante soltanto per le rimanenti porzioni del fondo, non potrebbe estendersi l'applicazione dell'indice di copertura dello 0,5 anche ad una porzione territoriale soggetta a differenti indici di densità edilizia, come emergenti dalla disciplina dettata dall'artt. 9, del D.P.R. n. 380 del 2001 (o dalle diverse disposizioni di legge regionale ove esistenti) ovvero dalla nuova normazione dell'area assunta dall'Amministrazione comunale.
In altri termini, la superficie espressa dall'area per cui è causa, già gravata da un vincolo di destinazione pubblica, una vota decaduto il vincolo, non avrebbe potuto comunque essere sommata a quella generata dalla rimanente porzione del lotto, al fine di verificare il rispetto dell'indice di copertura dello 0,5: si fa, infatti, questione di una porzione territoriale non classificabile come B5, in quanto sottoposta al differente regime di cui all'art. 9, D.P.R. n. 380 del 2001, come tale non assoggettabili ad indici di densità edilizia (quale l'indice di copertura dello 0,5 per cui è causa) previsti per differenti zone territoriali (B5).
6. Alla luce delle considerazioni svolte, l'appello deve essere rigettato per concorrenti ed autonome ragioni.
L'impugnazione in esame, infatti, da un lato, è argomentata sulla base di un presupposto (dato dall'estensione della superficie computabile per la verifica dell'indice di copertura) contrastante con quello già accertato con effetti di giudicato inter partes dal D.P. del 2009 (assunto sul presupposto di una superficie rilevante estesa per mq 1578); dall'altro, comunque, è incentrata su deduzioni che non trovano riscontro nella giurisprudenza e nella disciplina urbanistica di riferimento, tenuto conto che:
- i principi in tema di lotto urbanisticamente unitario non impongono, a prescindere dall'indice di edificabilità preso in esame, il computo dell'intera superficie realmente espressa dal lotto, ma sono funzionali ad evitare che frazionamenti proprietari o catastali possano incrementare la volumetria e la superficie coperta; il che si verificherebbe se si considerassero atomisticamente, ai fini del calcolo degli indici di edificabilità, le singole porzioni territoriali medio tempore frazionate dalle parti private;
- tali principi, pertanto, da un lato, impongono di tenere conto della superficie coperta e del volume già generato da preesistenti edificazioni insistenti sul lotto unitario, come ritenuto da questo Consiglio nel parere reso in sede di procedimento per ricorso straordinario; dall'altro, non permettono di ritenere irrilevanti le differenti destinazioni urbanistiche impresse dalla disciplina (anche attuativa) urbanistica di riferimento, riguardando i soli frazionamenti proprietari e catastali;
- la possibilità di computare l'intera superficie realmente espressa dal lotto urbanisticamente unitario discende, pertanto, anziché dai principi del lotto urbanisticamente unitario, dalla tipologia di indice di edificabilità preso in esame;
- l'indice di copertura, rilevante nel caso di specie, misura il rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria, intendendosi per tale la sola superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle porzioni territoriali soggette a vincoli di destinazione a uso pubblico, quale la pubblica viabilità;
- anche in presenza di un vincolo espropriativo, la sua decadenza non consentirebbe la reviviscenza dell'originaria disciplina urbanistica e, dunque, non permetterebbe di applicare alla relativa porzione territoriale, ancora da normare, gli indici di edificabilità previste per altre zone del territorio comunale.
Per l'effetto, nel caso di specie:
- la differenziazione tra gli indici di densità edilizia non avrebbe potuto essere condizionata dalla circostanza per cui la zona di riferimento fosse classificata come B5: la distinzione tra indice di densità fondiaria e indice di densità territoriale, come osservato, varia, anziché in ragione della zona presa in esame, dalla diversa funzione da ciascuno di essi svolta, tenuto conto che l'indice di densità territoriale definisce il complessivo carico di edificazione suscettibile di gravare su ciascuna zona omogenea, mentre l'indice di densità fondiaria definisce il volume massimo edificabile sulla singola area stessa, determinata al netto delle porzioni sottoposte a vincoli di destinazione pubblica, quale la destinazione a viabilità per cui è causa;
- lo strumento di pianificazione attuativa, che ha definito la porzione territoriale del lotto di proprietà del ricorrente destinata a viabilità, non è stato tempestivamente impugnato, né potrebbe essere disapplicato in via ermeneutica nell'odierno giudizio, sia perché non emerge una incompatibilità con una norma primaria regolante la materia, in grado di imporsi (in sostituzione di quella secondaria) come fonte di regolazione del rapporto controverso, sia perché la disapplicazione in materia urbanistica non potrebbe operare in relazione alle prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2016, n. 475), quali sono quelle dettate dal piano particolareggiato per cui è causa, incidenti su una porzione del lotto di proprietà del ricorrente, destinato a pubblica viabilità;
- la sottoposizione di una porzione del lotto al vincolo di destinazione a viabilità pubblica impediva di computare tale porzione territoriale nell'ambito della superficie fondiaria rilevante per determinare il limite massimo di copertura del lotto;
- decaduto il vincolo espropriativo, non poteva comunque conservarsi, in relazione alla relativa porzione territoriale, la classificazione come area B di completamento residenziale, operando la disciplina di cui all'art. 9 D.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente impossibilità di estendere alla porzione territoriale gravata da un vincolo espropriativo decaduto l'indice di copertura previsto per altre aree normate dallo strumento di pianificazione urbanistica;
Ne deriva che la porzione del lotto di proprietà del ricorrente -dapprima, sottoposta a vincolo di destinazione pubblica, successivamente, ad un regime edilizio ed urbanistico differente da quello delineato per la zona B5 dagli strumenti di pianificazione territoriale comunali- non avrebbe potuto essere computata al fine di determinare la superficie fondiaria da assumere a fondamento del calcolo della massima copertura edificabile
Non potrebbe, peraltro, neppure invocarsi il precedente di questo Consiglio di Stato (n. 3106/13), che non ha affermato il principio per cui, ai fini del calcolo dell'indice di copertura, è irrilevante la destinazione a pubblica viabilità impressa dallo strumento di pianificazione attuativa ad una porzione di un lotto unitario, ma semplicemente ha accertato che il lotto oggetto del relativo giudizio non risultava asservito in favore dell'edificazione in precedenza realizzata per effetto di un piano di lottizzazione sui lotti circostanti.
Tali rilievi non sono conferenti rispetto al caso di specie, dove non si discute sull'asservimento del lotto di proprietà del ricorrente rispetto all'edificazione assentita su lotti circostanti, ma di imposizione di un vincolo destinazione su una porzione di un lotto unitario, idonea, come osservato, a ridurre l'estensione della superficie fondiaria computabile per definire il limite di superficie suscettibile di essere coperta per effetto dell'edificazione.
Tale limite, da determinare scomputando la porzione di lotto destinata a viabilità dalle disposizioni del citato piano particolareggiato, risultava superato dall'edificazione delle opere per cui è causa, con conseguente emersione di una violazione urbanistica (dell'indice di copertura) ostativa alla sanatoria richiesta in sede amministrativa.
7. Alla luce delle considerazioni svolte, l'appello deve essere rigettato e, per l'effetto, deve essere confermata la sentenza impugnata.
La particolarità della controversia giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio del grado di appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa interamente tra le parti le spese di giudizio del grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti processuali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Giordano Lamberti, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere
Francesco De Luca, Consigliere, Estensore
Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 25-11-2021) 29-03-2022, n. 2297
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5969 del 2015, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Anna Ingianni, Giovanni Maria Lauro e Cecilia Savona, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di Macomer, non costituito in giudizio;
nei confronti
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Mauro Barberio e Stefano Porcu, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) n.-OMISSIS-/2014, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 novembre 2021 il Cons. Francesco De Luca e udito per le parti l'avvocato Stefano Porcu;
Svolgimento del processo
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, il Sig. -OMISSIS- appella la sentenza n. -OMISSIS- del 2014, con cui il Tar Sardegna ha rigettato il ricorso e i motivi aggiunti di primo grado, diretti ad ottenere l'annullamento:
a) del silenzio rifiuto serbato dall'Amministrazione resistente sulla domanda di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, relativamente ad un edificio, già oggetto di concessione edilizia n. 60/2005 successivamente annullata, sito in M.;
b) della Det. n. 2547 del 30 novembre 2010, prot. n. (...), con cui il Comune di Macomer ha rigettato la domanda di accertamento di conformità presentata dalla parte ricorrente, nonché dell'ordinanza di demolizione n. 119/2010, prot. n. (...) relativa al medesimo edificio siti in M.;
c) del verbale di accertamento tecnico comunale n. 10213 del 10.5.2011, dell'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 119/2010 cit., nonché dell'ordinanza di demolizione n. 62 del 15.6.2011, relativamente all'immobile distinto al catasto urbano di M. al foglio (...), mapp. (...), sub da (...) a (...);
d) del verbale di accertamento tecnico comunale n. 21794 del 14.10.2011 di accertamento dell'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 62/2011;
e) dell'ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale n. 45 del 16.4.2012;
f) di tutti gli atti connessi.
Secondo quanto dedotto in appello:
- il Sig. -OMISSIS- ha ottenuto dal Comune di Macomer il rilascio della concessione edilizia n. 60 del 2005, avente ad oggetto la realizzazione di un edificio nella via I., insistente su un più ampio lotto di complessivi mq 3.945 catastali, avente destinazione urbanistica B5 (di completamento residenziale) ai sensi del Piano regolatore generale;
- sul medesimo lotto preesisteva un altro complesso residenziale, di superficie coperta pari a mq 1.488,44, realizzato dal ricorrente nel 1989/1991 sulla base delle concessioni edilizie n. 79 del 5.9.1989 e n. 67 del 21.6.1991;
- il Sig. -OMISSIS-, proprietario confinante, ha impugnato la concessione edilizia n. 60/2005 con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;
- con D.P. del 29 ottobre 2009, reso sulla base del parere espresso da questo Consiglio di Stato -motivato sul rilievo per cui la nuova superficie coperta, assentita con concessione edilizia n. 60/2005, sommata a quella degli altri corpi di fabbrica preesistenti, risultava tale da determinare il superamento del rapporto massimo di 0,5 tra superficie complessiva del lotto e superficie coperta previsto dall'art. 12, sub (...), NTA del Piano Particolareggiato, in applicazione del principio del lotto urbanisticamente unitario - il ricorso straordinario proposto dal Sig. -OMISSIS- è stato accolto e, per l'effetto, il titolo edilizio impugnato è stato annullato;
- di conseguenza, l'Amministrazione comunale ha adottato l'ordinanza n. 36 del 2020, disponendo la demolizione delle opere di cui alla concessione edilizia n. 60/2005, da ritenere abusive in quanto realizzate sulla base di un titolo ormai annullato in sede straordinaria;
- in data 29.7.2010 il Sig. -OMISSIS- ha presentato istanza di accertamento di conformità, rilevando che, sebbene l'Amministrazione comunale avesse impresso ad una parte del lotto (per 1013 mq) la destinazione a viabilità pubblica in base al Piano particolareggiato, la relativa acquisizione (comunque da indennizzare) non risultava mai avvenuta; la superficie di mq 1013 era infatti di proprietà del ricorrente, che aveva destinato la relativa porzione territoriale a viabilità per propria libera scelta; per l'effetto, l'Amministrazione avrebbe dovuto verificare la conformità del nuovo edificio, in relazione al rispetto della superficie massima insediabile sul lotto, avendo riguardo alla sua superficie complessiva comprensiva della porzione destinata a viabilità pubblica; il che avrebbe consentito di rispettare l'indice di massima superficie edificabile;
- il Comune ha comunicato all'istante il preavviso di rigetto, ritenendo ostativa la destinazione a viabilità pubblica della porzione di lotto di mq 1043, da scomputare dal calcolo della superficie coperta assentibile; l'istante ha controdedotto al preavviso di rigetto;
- stante la condotta inerte tenuto dal Comune, il Sig. -OMISSIS- ha proposto il ricorso di primo grado dinnanzi al Tar Sardegna, al fine di ottenere la condanna dell'Amministrazione a provvedere sull'istanza di accertamento di conformità;
- in pendenza di giudizio, il Comune con Det. n. 2547 del 2010 ha rigettato la domanda di accertamento di conformità, insistendo nelle ragioni ostative già illustrate nel preavviso di rigetto; con successiva ordinanza n. 119/2010 il Comune ha disposto la demolizione del fabbricato in parola;
- tali provvedimenti sono stati impugnati con motivi aggiunti proposti nell'ambito del giudizio pendente dinnanzi al Tar Sardegna;
- con verbale n. 10123 del 2011, redatto dal tecnico comunale, è stata accertata l'inottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 119 del 2010 e con successiva nota n. 122242 dell'8.6.2011 il Comune ha avvisato l'interessato circa la sussistenza delle condizioni per l'acquisizione del fabbricato abusivo al patrimonio comunale;
- con ordinanza n. 62 del 2011 l'obbligo di demolizione è stato esteso nei confronti di un acquirente di uno degli appartamenti componenti l'edificio de quo;
- con ulteriori motivi aggiunti il ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza n. 62/2011, con cui l'Amministrazione, in sostituzione rispetto a quanto disposto con la pregressa ordinanza n. 119/10, aveva provveduto ad una nuova regolazione del rapporto sostanziale;
- con verbale n. 21794 del 14.10.2011 il tecnico comunale ha accertato la mancata ottemperanza dell'ordinanza di demolizione n. 62/11 e con successiva nota l'Amministrazione ha avvisato gli interessati della sussistenza delle condizioni per l'acquisizione al patrimonio comunale del relativo fabbricato abusivo;
- con ulteriori motivi aggiunti il ricorrente ha chiesto l'annullamento di tali ultimi provvedimenti;
- con ordinanza n. 45 del 2012 il Comune ha disposto l'acquisizione dell'immobile al proprio patrimonio;
- anche tale atto è stato impugnato con ultimi motivi aggiunti;
- in sede penale il ricorrente è stato condannato con sentenza del Tribunale di Oristano per il reato di cui all'art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001; con successiva sentenza della Corte di Appello di Cagliari il medesimo reato è stato dichiarato prescritto;
- il primo giudice ha dichiarato l'improcedibilità delle censure dirette contro l'ordinanza n. 119/10 (in quanto superata dall'ordinanza n. 62/2011), nonché contro il verbale tecnico comunale n. 10213/2011 e la nota comunale n. 12242/11 (in quanto superati e sostituiti per l'effetto dell'emissione della nuova ordinanza n. 62/2011), mentre ha rigettato le censure dirette contro i rimanenti atti amministrativi.
2. Il ricorrente ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l'erroneità, in specie in relazione al capo decisorio con cui il primo giudice ha ritenuto legittimo il diniego di accertamento di conformità, stante l'impossibilità di computare, ai fini del calcolo della superficie complessiva del lotto, la porzione destinata a viabilità di mq 1043.
3. Il Sig. -OMISSIS-, interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, si è costituito nel presente grado di giudizio, resistendo all'appello.
4. Le parti hanno argomentato a sostegno delle rispettive conclusioni con il deposito di memorie conclusionali. L'appellante ha pure replicato alle avverse deduzioni.
5. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza del 25 novembre 2021.
Motivi della decisione
1. Pregiudizialmente, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità opposte dal Sig. -OMISSIS- nella propria memoria conclusionale.
1.1 In particolare, secondo l'odierno appellato, l'appello e, ancora prima, il ricorso di primo grado e i successivi motivi aggiunti, sarebbero inammissibili, in primo luogo, perché diretti a rimettere in discussione le statuizioni contenute nel D.P.R. del 29 ottobre 2009 di accoglimento del ricorso straordinario proposto avverso la concessione edilizia n. 60/2005 cit., che avrebbe già accertato la violazione del rapporto di copertura previsto dal Piano Particolareggiato comunale. Il Tar Sardegna avrebbe errato nel rigettare tale eccezione -comunque riproponibile in appello in quanto rilevabile d'ufficio-, in quanto le contestazioni attoree, tendendo a rimettere in discussione la decisione presidenziale e l'accertamento ivi contenuto, violerebbero il relativo giudicato.
L'appello sarebbe parimenti inammissibile per difetto di interesse, in quanto l'appellante non avrebbe impugnato la deliberazione del Consiglio comunale n. 58 del 2014, con cui l'immobile è stato destinato ad edilizia residenziale pubblica, né le determinazioni con cui gli alloggi ivi insistenti sono stati assegnati a diversi soggetti. Per l'effetto, non potendo l'appellante tornare nella disponibilità del fabbricato in caso di esito favorevole del giudizio, non potrebbe riscontrarsi nella specie alcun interesse al relativo ricorso.
1.2 Le eccezioni di inammissibilità non possono trovare accoglimento.
1.3 In particolare, fermo quanto si osserverà infra nella disamina del merito della controversia, l'eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del giudicato formatosi sul D.P. del 29 ottobre 2009 - recante l'accoglimento del ricorso straordinario proposto contro la concessione edilizia n. 60/2005 cit. - è preclusa, in quanto oggetto di statuizioni giudiziali, rese dal primo giudice, non impugnate in appello.
Il Tar, infatti, prendendo posizione su un'analoga eccezione sollevata in primo grado, ha escluso la violazione del ne bis in idem, in quanto "di fronte al Capo dello Stato si è discusso della concessione edilizia n. 60/2005 inizialmente ottenuta dall'odierno ricorrente, mentre in questa sede lo stesso impugna il diniego della successiva richiesta di concessione in sanatoria (ancorata a presupposti normativi in parte differenti), nonché i conseguenti atti di demolizione e acquisizione del bene al patrimonio comunale, sui quali, peraltro, solleva anche censure autonome e non di mera illegittimità derivata; pertanto i due giudizi, benché tra le stesse parti e sul medesimo bene, riguardano un thema decidendum formalmente e sostanzialmente diverso".
Per l'effetto, tenuto conto che tale capo decisorio non è stato impugnato, il Sig. -OMISSIS- non può, attraverso la riproposizione di un'eccezione rigettata dal primo giudice, nuovamente mettere in discussione l'ammissibilità del ricorso di primo grado per violazione del divieto del bis in idem, essendo maturato sulla relativa questione il giudicato interno, con conseguente irretrattabilità della decisione al riguardo assunta dal primo giudice.
Non potrebbe argomentarsi diversamente neppure valorizzando la natura dell'eccezione di inammissibilità per violazione del divieto del bis in idem, non riservata all'iniziativa della parte, ma rilevabile anche d'ufficio dal giudice procedente.
La possibilità di opporre in grado di appello eccezioni rilevabili d'ufficio, ammessa dall'art. 104, comma 1, c.p.a. deve, infatti, essere coordinata con i principi che presiedono alla formazione del giudicato - strumentali alla realizzazione delle esigenze di certezza giuridica - e con gli oneri di riproposizione dettati dall'art. 101, comma 2, c.p.a.
L'appello non configura infatti un novum iudicium ma una revisio prioris istantiae (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. IV, 3 febbraio 2020, n. 844), con la conseguenza che il thema decidendum su cui è chiamato a statuire questo Consiglio è definito, anziché dal ricorso dinnanzi al Tar, dal ricorso in appello, cui deve aversi riguardo al fine di garantire la corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
In particolare, la parte è chiamata a dedurre specificatamente i fatti costitutivi delle proprie domande ed eccezioni, in forma di specifica critica delle sfavorevoli statuizioni rese dal primo giudice.
La riproposizione dell'eccezione, invece, ai sensi di quanto previsto dall'art. 101, comma 2, c.p.a., è ammessa solo in relazione a questioni non decise dal primo giudice, in relazione alle quali, difettando una statuizione da impugnare, l'onere esigibile dalla parte processuale non potrebbe essere quello della contestazione di una (inesistente) decisione di primo grado, ma soltanto quello della tempestiva riproposizione dell'eccezione non esaminata dal Tar affinché il giudice di appello, per la prima volta, statuisca sulle relative deduzioni.
A fronte di una sentenza di rigetto dell'eccezione, pertanto, la parte che sia risultata soccombente in relazione a tale questione, è onerata alla tempestiva impugnazione dell'eccezione rigettata, altrimenti consolidandosi le statuizioni di prime cure, con conseguente passaggio in giudicato (interno) del relativo capo decisorio.
Come precisato da questo Consiglio (tra gli altri, sez. III, 19 agosto 2021, n. 5931), infatti, il divieto del c.d. ius novorum in appello non si estende alle eccezioni e questioni processuali e sostanziali che siano rilevabili anche d'ufficio, fatti salvi, tuttavia, gli effetti del giudicato interno sulla statuizione recata sul punto dalla sentenza di primo grado (fermo lo speciale regime delle questioni di giurisdizione e competenza delineato dagli artt. 9 e 15 c.p.a.).
Di conseguenza, si conferma che, in assenza di impugnazione del capo decisorio con cui il Tar ha rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del ne bis in idem, la relativa decisione è divenuta ormai irretrattabile (per la formazione del giudicato interno), non potendo essere nuovamente delibata in sede di gravame; ne deriva l'inammissibilità della riproposizione della eccezione de qua, come correttamente rilevato dal ricorrente nella propria memoria di replica.
1.4 Non può essere accolta neppure la seconda eccezione di inammissibilità opposta dal Sig. -OMISSIS-, tenuto conto che la decisione dell'Amministrazione comunale di destinare l'immobile per cui è causa ad edilizia residenziale pubblica e le conseguenti determinazioni di assegnazione dei relativi alloggi risultano ancora sub judice; il che consente di escludere la sopravvenuta emersione di un assetto amministrativo definitivo, ostativo alla piena realizzazione dell'interesse sotteso alla proposizione dell'odierno appello.
In particolare, l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse presuppone il sopravvenuto mutamento, in pendenza di giudizio, dell'assetto di interessi attuato tra le parti, in maniera da impedire la realizzazione dell'interesse sostanziale sotteso al ricorso, rendendo inutile la prosecuzione del giudizio - anziché per l'ottenimento - per l'impossibilità sopravvenuta del conseguimento del bene della vita ambito dal ricorrente.
Questo Consiglio, in particolare, ha subordinato la dichiarazione di improcedibilità ad una sopravvenienza (fattuale o giuridica) tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, per avere fatto venir meno, per il ricorrente, qualsiasi residua utilità, anche soltanto strumentale o morale, derivante da una possibile pronuncia di accoglimento (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 29 gennaio 2020, n. 742).
Nel caso di specie, il Sig. -OMISSIS- pretende di desumere la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso in capo all'odierno appellante dalla decisione dell'Amministrazione di assegnare l'immobile per cui è causa ad edilizia residenziale pubblica e dai successivi atti di assegnazione dei relativi alloggi.
Secondo la prospettazione dell'appellato, in particolare, tale decisione amministrativa precluderebbe al ricorrente, a prescindere dall'esito dell'odierno giudizio, di riottenere la disponibilità dell'immobile de quo, ragion per cui la proposizione e la coltivazione dell'appello sarebbe priva di utilità per la stessa parte appellante.
Invero, la legittimità della complessa operazione amministrativa di destinazione dell'immobile ad edilizia residenziale pubblica è ancora sub judice, in quanto censurata dallo stesso Sig. -OMISSIS- (come dedotto nella memoria conclusionale dell'appellato, in specie alle pagg. 5 e 6 in cui si richiama l'avvenuta proposizione di un ricorso e di motivi aggiunti "sul presupposto dell'illegittimità della destinazione del bene a uso pubblico", rigettati con sentenza n. 217/2017 appellata davanti a questo Consiglio di Stato con ricorso iscritto al n.r.g. 4234/2017); per l'effetto, non si è in presenza di un assetto amministrativo, sopravvenuto in pendenza del giudizio, rimasto inoppugnato e, dunque, ormai consolidatosi in danno del Sig. -OMISSIS-: è ancora possibile che la sopravvenuta decisione comunale, di imprimere all'immobile una destinazione incompatibile con la realizzazione dell'interesse sostanziale sotteso all'odierno appello (tendente a riottenere la disponibilità del manufatto, oggetto degli atti gravati in prime cure), sia annullata, con effetti suscettibili di estendersi anche alla posizione del Sig. -OMISSIS-.
La circostanza che l'impugnazione dell'atto di destinazione ad edilizia residenziale sia stata proposta dal Sig. -OMISSIS-, anziché dal Sig. -OMISSIS-, non è infatti idonea ad impedire l'estensione degli effetti caducatori di una eventuale pronuncia di annullamento anche in favore del Sig. -OMISSIS-.
Come rilevato dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio, "I casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sono, quindi, eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile - logicamente, ancor prima che giuridicamente - che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.
Utilizzando tale criterio, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune eccezionali ipotesi di estensione ultra partes degli effetti del giudicato. Tale estensione dipende spesso da una pluralità di fattori concorrenti, fra i quali rileva non solo la natura dell'atto annullato, ma anche, cumulativamente, il vizio dedotto, nonché il tipo di effetto prodotto dal giudicato della cui estensione si discute.
Più nel dettaglio, secondo l'orientamento tradizionale, gli effetti inscindibili del giudicato amministrativo possono dipendere: a) in alcuni casi (ma raramente), solo dal tipo di atto annullato; b) altre volte, più frequenti, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto; c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l'estensione.
Si ritiene, in particolare, che produca effetti ultra partes:
a) l'annullamento di un regolamento (l'efficacia erga omnes in questo caso trova una base normativa indiretta nell'art. 14, comma 3, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che, proprio presupponendo tale efficacia, prevede che il decreto decisorio di un ricorso straordinario che pronunci l'annullamento di un atto normativo deve essere pubblicato nelle stesse forme dell'atto annullato);
b) l'annullamento di un atto plurimo inscindibile (ad es. il decreto di esproprio di un bene in comunione);
c) l'annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari (ad es. il decreto di approvazione di una graduatoria concorsuale travolto per un vizio comune);
d) l'annullamento di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (ad es. il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale).
In tutti i casi indicati, tuttavia, l'inscindibilità riguarda solo l'effetto di annullamento (l'effetto caducatorio), perché è solo rispetto ad esso che viene a crearsi la sopra richiamata situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri".
L'eventuale accoglimento dell'impugnazione proposta dal Sig. -OMISSIS- avverso la decisione comunale, recante l'assegnazione dell'immobile de quo ad edilizia residenziale pubblica, non potrebbe che produrre i propri effetti nei confronti di tutti coloro che abbiano una relazione qualificata con la res oggetto dell'atto annullato.
Il giudicato di annullamento si formerebbe, infatti, sul rapporto reale, riguardante la res litigiosa, rimuovendone la destinazione ad edilizia residenziale pubblica e riespandendo, per l'effetto, le facoltà dispositive della parte proprietaria; con la conseguenza che la rimozione del vincolo di destinazione opererebbe anche nei confronti della parte che, all'esito dell'odierno giudizio, dovesse risultare la proprietaria del manufatto per cui è causa.
Avuto riguardo al caso di specie, risulta infatti che il Sig. -OMISSIS- ha impugnato in primo grado, anche, l'atto di acquisizione al patrimonio comunale del manufatto de quo, sicché l'ipotetico annullamento di tale provvedimento comporterebbe la ricostituzione in capo al ricorrente del pieno diritto di proprietà; il Sig. -OMISSIS-, dunque, quale proprietario del bene risentirebbe degli effetti (per lui favorevoli) caducatori discendenti dall'ipotetico accoglimento del ricorso avverso la destinazione del medesimo bene ad edilizia residenziale, in quanto riacquisterebbe una res non più vincolata all'edilizia residenziale pubblica, con conseguente riespansione della propria sfera proprietaria.
In siffatte ipotesi, stante l'inscindibilità del rapporto reale, l'effetto del giudicato di annullamento di un atto limitativo delle facoltà proprietarie (stante l'imposizione di un vincolo di destinazione sulla res litigiosa) è suscettibile di produrre effetti nei confronti di tutti coloro che si trovino in una relazione qualificata con il bene, in primis la parte proprietaria.
Alla luce delle considerazioni svolte, non emergendo un sopravvenuto assetto di interessi definitivo, ostativo al conseguimento delle utilità ambite dal Sig. -OMISSIS- con l'accoglimento dell'odierno appello (riacquisto della piena proprietà di un immobile con riespansione, altresì, delle facoltà di suo godimento), non potrebbe riscontrarsi nella specie alcuna causa di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso.
2. Ciò premesso in ordine alle questioni di rito, è possibile soffermarsi sul merito della vertenza.
L'appello è diretto esclusivamente a contestare il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato le doglianze riferite al diniego di accertamento di conformità, ritenendo corretto l'operato amministrativo, tradottosi nell'esclusione, dal computo della superficie complessiva del lotto, della porzione destinata a pubblica viabilità. La riforma di tale capo decisorio travolgerebbe, in ragione dell'effetto espansivo interno della relativa pronuncia, tutti i capi dipendenti riguardanti gli atti comunali assunti sul presupposto del diniego di sanatoria (ivi compresi, l'ordine di demolizione, l'accertamento dell'inottemperanza dell'ordine demolitorio e il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale).
2.1 Secondo quanto dedotto dal ricorrente, il Tar avrebbe errato, in primo luogo, nel ritenere nella specie inconferente il principio del lotto urbanisticamente unitario.
Invero, la stessa Terza Sezione di questo Consiglio di Stato, nello statuire sul ricorso straordinario avverso la concessione edilizia n. 60/2005, avrebbe ritenuto violato il principio del lotto unitariamente unitario.
I frazionamenti, insuscettibili di minare l'unitarietà del lotto, non sarebbero soltanto quelli materiali, ma anche quelli giuridici, discendenti tanto dai passaggi di proprietà o catastali, quanto dalla disciplina attuativa urbanistica, rimanendo, comunque, il lotto unitario; per l'effetto, quando si discorre di frazionamento, si dovrebbe comprendere anche quello urbanistico derivante dal piano particolareggiato in esame.
Di conseguenza, dovrebbe ritenersi coperta dalla cosa giudicata l'applicazione nella specie del lotto urbanisticamente unitario: in applicazione di tale principio, le capacità insediative di un'area non soltanto non potrebbero ampliarsi, ma non potrebbero neppure essere ridotte; applicando il principio del lotto urbanisticamente unitario, non potrebbe, quindi, prendersi in considerazione il sub-frazionamento operato dal Comune con il Piano particolareggiato.
2.2 Il Tar avrebbe errato pure nell'escludere ogni rilievo alla zona urbanistica di riferimento - B5 di completamento residenziale - rilevante nella specie, caratterizzata dalla possibilità di costruire a prescindere da una convenzione di lottizzazione o da un'ulteriore pianificazione.
Il completamento dell'urbanizzazione non sarebbe né coerente né incoerente con la zonizzazione di completamento residenziale o con altra, ma solo con le concrete esigenze del territorio.
Tenuto conto della classificazione della zona quale zona B di completamento, l'indice di piano ivi previsto dovrebbe assumere natura fondiaria e non territoriale, in quanto l'indice di edificabilità territoriale sarebbe caratteristico delle zone C di espansione e di quelle assimilate. Per l'effetto, ai fini del calcolo di tutti gli indici, nella superficie fondiaria dovrebbero comprendersi anche le strade risultanti dal frazionamento disposto dal piano particolareggiato.
2.3 L'appellante insiste nel ritenere che il lotto urbanisticamente unitario non possa essere frazionato, con la conseguenza che il fondo da prendere in esame non sarebbe quello delineato dal Piano Particolareggiato, ma quello di proprietà del ricorrente, ricadente nella zona B di completamento con un indice fondiario non modificabile dallo strumento attuativo.
Il piano particolareggiato non potrebbe identificare un fondo differente dal compendio originario, facendosi questione di un indice che per le sue caratteristiche dovrebbe investire l'intera area classificata B dallo strumento urbanistico generale.
2.4 Il Tar avrebbe pure errato nel ritenere che l'area in esame, in quanto oggetto di vincoli di destinazione di natura espropriativa ormai decaduti, non legittimasse l'edificazione di alcuna volumetria, dovendosi, invece, avere riguardo alle possibilità legali ed effettive di edificazione sussistenti al momento dell'imposizione del vincolo; per l'effetto, rimarrebbe la classificazione come area B di completamento residenziale.
Non potrebbe argomentarsi diversamente sulla base dell'art. 9, comma 3, D.P.R. n. 327 del 2007 e dell'art. 9, D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di disposizioni che non classificherebbero l'area, come dimostrato dal fatto che in caso di espropriazione di applica il criterio residuale dell'edificabilità di fatto.
In ogni caso, gli indici di edificabilità che si azzererebbero sarebbero quelli in senso proprio, riferiti al rapporto tra mc e mq, ma non anche quello di copertura, rilevante nell'odierno giudizio: l'area destinata a viabilità sarebbe superficie esistente e ineliminabile sul piano fattuale, per l'effetto da computare al fine di determinare il rapporto tra superficie esistente e copertura consentita.
2.5 La parte ricorrente argomenta le proprie deduzioni anche sulla base di un precedente di questo Consiglio (n. 3106/2013), da cui troverebbe conferma il principio per cui non potrebbe sottrarsi ad un'area classificata "B" di completamento l'edificabilità riconnettibile alle superfici destinate spontaneamente a viabilità dall'originario unico proprietario, rimaste ancora di sua proprietà per mancata loro acquisizione al patrimonio comunale.
3. Le censure, afferenti al medesimo capo decisorio, suscettibili di trattazione unitaria per ragioni di connessione, sono infondate.
4. L'infondatezza discende, per una prima ed autonoma ragione, dall'accertamento di merito recato dal D.P. del 29 ottobre 2009, con cui è stato accolto il ricorso straordinario proposto contro la concessione edilizia n. 60/2005 cit.
4.1 Come osservato sopra, tale decreto non può essere più invocato nel presente grado di giudizio per censurare la violazione dell'effetto preclusivo discendente dal pregresso giudicato, avendo il Tar, con capo decisorio ormai irretrattabile perché non impugnato, negato che la parte ricorrente in primo grado avesse riproposto la stessa domanda rigettata in sede straordinaria, in violazione del divieto del bis in idem.
La possibilità, dunque, di fare valere tale decreto quale causa di inammissibilità del ricorso di primo grado (perché afferente ad una domanda già rigettata con pronuncia operante inter partes), non può formare oggetto di ulteriori doglianze esaminabili dal Collegio.
La preesistenza di un giudicato formatosi inter partes, tuttavia, può essere invocata in funzione conformativa dell'odierna decisione, essendosi in presenza di una questione - pure emergente dalle deduzioni dell'appellata, che ha valorizzato il pregresso accertamento svolto in sede straordinaria - non esaminata e decisa dal primo giudice: il Tar si è infatti limitato, nel rito, a riconoscere l'ammissibilità del ricorso per diversità delle domande proposte in sede straordinaria e giurisdizionale, ma non ha negato, nel merito, l'esistenza di un pregresso accertamento, reso in sede straordinaria, suscettibile di condizionare l'odierno giudizio ai fini della decisione delle diverse domande ivi proposte.
L'effetto conformativo del giudicato di annullamento è apprezzabile:
- tanto sul piano amministrativo, imponendo all'Amministrazione soccombente di assumere le determinazioni di competenza (relative alla stessa vicenda amministrativa in cui è stato adottato il provvedimento annullato in giudizio o ad altre vicende alla prima oggettivamente connesse) nel rispetto dei criteri direttivi discendenti dalla pronuncia di annullamento;
- quanto sul piano processuale, imponendo al giudice investito di una successiva causa vertente tra le stesse parti e riferita al medesimo rapporto amministrativo di conformarsi al precedente accertamento giurisdizionale, ove emergano questioni giuridiche o fattuali fondate su punti fondamentai comuni ad entrambe le controversie.
Come precisato dalla giurisprudenza ordinaria - con argomentazioni riferibili anche al processo amministrativo, in quanto espressione di principi processuali comuni in materia di giudicato - "qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo" (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2018, n. 11754).
Nel caso di specie, sussistono i presupposti perché il giudicato formatosi sul decreto presidenziale reso in sede straordinaria possa operare in funzione conformativa anche nell'ambito dell'odierno giudizio (sebbene relativo ad atti differenti, assunti pure sulla base di presupposti parzialmente diversi, come rilevato in maniera irretrattabile dal Tar nel rigettare l'eccezione di inammissibilità per violazione del ne bis in idem).
4.2 Al riguardo, in primo luogo, non può dubitarsi dell'idoneità del decreto presidenziale, reso a definizione di un procedimento per ricorso straordinario, di produrre effetti giuridici assimilabili a quelli del giudicato amministrativo, sia in funzione preclusiva della riproposizione delle medesime domande già decise in sede straordinaria, sia (per quanto di maggiore interesse nella presente sede) in funzione conformativa in relazione alla decisione di successive e diverse domande, proposte in sede giurisdizionale, aventi ad oggetto questioni giuridiche o fattuali su punti fondamentali comuni.
Questo Consiglio, infatti, ha riconosciuto la natura sostanzialmente giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, al fine di assicurare un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile con il ricorso innanzi agli organi di giustizia amministrativa ed in tale considerazione ha rilevato che "il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo" (Consiglio di Stato Sez. V, 22 aprile 2020, n. 2554).
Tali principi trovano, in particolare, applicazione in relazione ai decreti presidenziali pronunciati successivamente all'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, con cui sono state introdotte significative modifiche alla disciplina del ricorso straordinario, in specie con la previsione, da un lato, del carattere vincolante del parere reso dal Consiglio di Stato -essendo prescritto che il decreto del Presidente della Repubblica, che decide sul ricorso straordinario, deve essere adottato su proposta del Ministero competente, "conforme al parere del Consiglio di Stato" - dall'altro, della possibilità per il Consiglio di Stato di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale, manifestando in tale modo la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio giuridico in esame.
Né potrebbe differirsi la mutata natura del ricorso straordinario all'entrata in vigore del codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104 del 2010) che, tra l'altro, ha limitato la possibilità di ricorrere in sede straordinaria in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (con conseguente individuazione nella giurisdizione del presupposto di ammissibilità del ricorso straordinario al pari di quanto avviene per il ricorso "ordinario" al giudice amministrativo), ha esteso la legittimazione a presentare opposizione alla trattazione della controversia in sede straordinaria (in tale maniera garantendo la pienezza del contraddittorio), nonché ha compiutamente regolato la trasposizione alla stregua di una transatio iudicii (con conseguente emersione di procedimenti analoghi nella natura giuridica).
Le innovazioni introdotte con il codice del processo amministrativo, infatti, più che determinare la modifica della natura giuridica del rimedio in esame - da rimedio amministrativo a rimedio di giustizia, funzionale all'emissione di una decisione avente natura sostanzialmente giurisdizionale-, hanno accentuato ulteriormente la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio, già discendente dalle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009.
La stessa giurisprudenza ordinaria (cfr. Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464), sebbene abbia valorizzato le modifiche normative intervenute nel 2009/2010 per argomentare in merito alla configurazione del decreto presidenziale, emesso all'esito del procedimento per ricorso straordinario, quale decisione di giustizia, ha evidenziato come "Il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) ha ulteriormente accentuato il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario in varie disposizioni", con la conseguenza che le innovazioni introdotte dal D.Lgs. n. 104 del 2010, come osservato, non sembrano avere determinato, avendo soltanto accentuato il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario già desumibile dal previgente assetto normativo, come delineato dalla L. n. 69 del 2009.
Del resto, è con la L. n. 69 del 2009 che, non soltanto è stata imposta l'emissione di un decreto presidenziale conforme al parere del Consiglio di Stato, consentendo dunque alla decisione conforme al parere di ripetere da quest'ultimo la natura di atto giurisdizionale in senso sostanziale, ma è stata pure prevista la possibilità per il Consiglio di Stato in sede straordinaria di sollevare questione di legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 23 L. n. 87 del 1953, il che è proprio dei giudizi dinnanzi all'autorità giurisdizionali.
La stessa Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 9 del 2013), pure valorizzando la rilevanza della riforma recata dal c.p.a:
- da un lato, ha precisato che "La matrice sostanzialmente giurisdizionale del rimedio è corroborata dalle indicazioni ricavabili dal codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104", evidenziando, dunque, come il c.p.a., anziché determinare il mutamento della natura giuridica del rimedio, abbia corroborato la sua natura sostanzialmente giurisdizionale, per l'effetto già riconosciuta dalla previgente disciplina;
- dall'altro, ha ritenuto come assuma "rilievo decisivo lo jus superveniens che ha attribuito carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, con il connesso riconoscimento della legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in detta sede, questione di legittimità costituzionale", tenuto conto che, "una volta acquisito che la paternità effettiva della decisione è da ricondurre all'apporto consultivo del Consiglio di Stato connotato da una suitas giurisdizionale e che, pertanto, il provvedimento finale è meramente dichiarativo di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo, si deve convenire che l'atto finale della procedura è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato"; dimostrando, in tale maniera di riconoscere portata decisiva e, dunque, determinante alle innovazioni introdotte con la L. n. 69 del 2009 in ordine alla natura vincolante del parere di questo Consiglio in sede straordinaria e alla possibilità nella medesima sede di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Con successiva pronuncia l'Adunanza Plenaria (14 luglio 2015, n. 7) ha pure precisato che "la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all'autorità giurisdizionale. Ne deriva l'assenza di detto requisito sostanziale per le decisioni adottate in un regime caratterizzato, prima dell'entrata in vigore dell'articolo 69 della L. n. 69 del 2009, dalla concorrente paternità in capo all'autorità amministrativa, legittimata a esprimere, attraverso un aggravamento procedurale, un avviso contrario a quello sostenuto nell'apporto consultivo del Consiglio di Stato", ad ulteriore conferma di come il discrimine nel trattamento giuridico del rimedio di giustizia sembri dato dalle innovazioni introdotti con la L. n. 69 del 2009, assumendo il D.Lgs. n. 104 del 2010 valenza rafforzativa di una natura sostanzialmente giurisdizionale del ricorso straordinario già riconosciuta con la L. n. 69 del 2009.
Per l'effetto, posto che, al fine di riconoscere la natura giurisdizionale alla decisione presidenziale assunta in sede di ricorso straordinario, occorre avere riguardo alla data di deposito del decreto, e non a quella in cui è stato depositato il ricorso introduttivo del giudizio (Cass. civ. Sez. V, Ord., 17 maggio 2019, n. 13389), il decreto presidenziale, con cui è stata annullata la concessione edilizia n. 60 del 2005, deve ritenersi idoneo al giudicato, in quanto depositato in data 29 ottobre 2009, successivamente all'entrata in vigore dell'art. 69 L. n. 69 del 2009 (4 luglio 2009).
Di conseguenza, tale decreto risulta idoneo a produrre effetti analoghi al giudicato amministrativo nei rapporti tra il Sig. -OMISSIS-, il Comune di Macomer e il Sig. -OMISSIS-, costituenti le parti tra cui è stata assunta la relativa decisione di giustizia (circostanza confermata dal doc. 1 in allegato al ricorso principale di primo grado, recante, altresì, la nota ministeriale di trasmissione del decreto presidenziale al Comune, al Sig. -OMISSIS- e al Sig. -OMISSIS-, rispettivamente amministrazione resistente, controinteressato e ricorrente).
4.3 Definita l'idoneità del D.P. del 29 ottobre 2009 a produrre effetti giuridici assimilabili a quelli del giudicato amministrativo, occorre procedere alla ricostruzione del suo ambito oggettivo, al fine di individuare l'effetto conformativo suscettibile di prodursi nell'ambito dell'odierno giudizio.
Al riguardo, al fine di delimitare la portata del giudicato e, dunque, individuare la regula iuris ritraibile dal precedente in esame, occorre procedere ad una lettura congiunta di dispositivo e motivazione, da correlarsi con la causa petendi introdotta dal ricorrente, intesa come titolo dell'azione proposta, e del bene della vita che ne forma l'oggetto ("petitum" mediato): il giudicato, in particolare, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, comprese le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia - che ne costituiscono il giudicato implicito - e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione - che costituisce il giudicato esplicito - formandone l'indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248).
Tenuto conto di tali coordinate ermeneutiche, il D.P. del 29 ottobre 2009 ha accolto il ricorso straordinario proposto avverso la concessione edilizia n. 60 del 2005 richiamano il parere n. 965/2009 espresso da questo Consiglio di Stato, con cui era stata ritenuta fondata la doglianza incentrata sulla "violazione dell'art. 12 sub 6 delle Norme di Attuazione del piano particolareggiato per la zona B5 e della tavola 21 - isolato 22 del P.P. Violazione dell'incide massimo di copertura (0,5). Violazione ed errata applicazione dell'art. 35 delle N.T.A. del Piano Particolareggiato. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti".
Questo Consiglio, in particolare, nel ricostruire la portata di tale motivo di ricorso, ha evidenziato come "l'istante sostiene che con la concessione impugnata sarebbe stato superato l'indice massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e superficie fondiaria previsto dall'art. 12 sub 6 delle norme di attuazione del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5, approvato con deliberazione consiliare n. 108 del 12.9.95. Ciò in quanto la superficie coperta complessiva andrebbe calcolata aggiungendo a quella in precedenza utilizzata quella delle costruzioni assentite con l'impugnata concessione n. 60, in conseguenza della quale il rapporto massimo di copertura supererebbe il prescritto indice di 0,5".
Questo Consiglio, ha dunque, rilevato che:
- la concessione edilizia n. 60 "attiene al lotto n. 7, con superficie di mq 1578, dell'isolato 22 A del Piano Particolareggiato. Sul lotto risultano edificati due corpi di fabbricato (A e D), assentiti con concessione edilizia n. 79/89, occupanti complessivamente una superficie coperta di mq 787,44";
- in forza dell'indice di copertura previsto per la zona dal Piano Particolareggiato (0,5 mq/mq), nel lotto, da considerare unitario, sarebbe stato, dunque, possibile realizzare una copertura di mq 789;
- la superficie coperta risultava pari a mq 787,44 già realizzati, ragion per cui l'intervento di cui alla concessione edilizia avrebbe determinato il superamento dell'indice di copertura;
- infatti, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua o la superficie coperta residua deve essere calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Risulta, dunque, incontrovertibile, in quanto integranti questioni e accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile di una decisione idonea a produrre effetti sostanzialmente giurisdizionali, che:
- l'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5, approvato con delibera consiliare n. 108/95, prescriveva un indice massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e superficie fondiaria (circostanze alla base del motivo accolto con il decreto presidenziale, dunque positivamente valutate con tale decisione di giustizia);
- la superficie da computare ai fini del calcolo dell'indice di copertura era di 1578 mq;
- la superficie già realizzata prima dell'adozione della concessione edilizia n. 60/05 risultava di 787,44, prossima a quella massima assentibile di mq 789, pari alla metà della superficie computabile ai fini del rispetto dell'indice di copertura (0,50 mq/mq);
- le opere assentite con la concessione edilizia n. 60 cit. avrebbero comportato la violazione di tale indice.
Gli accertamenti riguardanti l'estensione della superficie da computare al fine di rispettare l'indice di copertura delineato dall'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5 afferiscono ad una questione relativa ad un punto fondamentale comune all'odierno giudizio, vertente pur sempre sul rapporto amministrativo corrente tra il Comune di Macomer e il Sig. -OMISSIS- in ordine alla legittimità delle stesse opere edilizie (manufatto realizzato sulla base della concessione edilizia n. 60 cit., successivamente oggetto di istanza di accertamento di conformità).
Deve, dunque, ritenersi che tali accertamenti, in quanto coperti dal giudicato, non possano essere più rimessi in discussione nella presente sede, vincolando la decisione che il Collegio è chiamato ad assumere a definizione dell'odierno giudizio.
4.4 L'effetto conformativo del decreto presidenziale conduce al rigetto dell'appello, non sussistendo i presupposti per pervenire, in riforma della sentenza gravata, a riscontrare l'illegittimità del diniego di sanatoria impugnato con i primi motivi aggiunti di primo grado.
La parte ricorrente, infatti, censura l'erroneità della sentenza gravata, evidenziando come la superficie fondiaria da prendere in esame ai fini del calcolo dell'indice di copertura debba essere pari a mq 3.945, attesa la necessità di comprendervi anche la superficie di mq 1.013 destinata a viabilità ancora facente parte del lotto fondiario, urbanisticamente unitario.
Tali deduzioni, tuttavia, tendono a rimettere in discussione tra le stesse parti un accertamento già svolto in sede straordinaria, che, seppure riguardante un diverso provvedimento (concessione edilizia), afferisce comunque al medesimo bene immobile (opere realizzabili sulla base della concessione edilizia n. 60 cit.) e allo stesso indice di copertura rilevante nel presente giudizio: trattasi dell'accertamento in merito all'estensione della superficie da computare per determinare il limite di copertura operante nell'area per cui è causa.
Con il decreto presidenziale, in particolare, è stata già determinata tra le parti la necessità di computare una superficie di 1578 mq; trattasi di una premessa necessaria, costituente il fondamento logico-giuridico ineludibile del decreto presidenziale, di cui costituisce l'indispensabile presupposto, pertanto da ritenere compresa nella portata oggettiva del relativo giudicato.
Non potendo più controvertersi su tale questione, deve assumersi anche nella presente sede un'estensione della superficie rilevante per il calcolo dell'indice di copertura pari a 1578 mq.
Tale rilievo osta all'accoglimento dell'appello, avendo l'Amministrazione comunale correttamente negato l'accertamento di conformità delle opere de quibus, in quanto, in ragione dell'indice di copertura nella specie applicabile (0,5), considerata la superficie già edificata comunque da computare in ragione del principio del lotto urbanisticamente unitario (784,44 mq), nonché la superficie del lotto (rilevante per il calcolo dell'indice di copertura) già accertata nel pregresso giudicato (1578 mq) le opere oggetto dell'istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 (e art. 16 L.R. n. 23 del 1985) non avrebbero potuto essere sanate, in quanto occupanti una superficie coperta superiore al limite fissato dalla pertinente disciplina urbanistica applicabile all'area.
4.5 Come precisato da questo Consiglio, "l'articolo 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, nel disciplinare l'accertamento di conformità, ossia quello strumento attraverso cui si consente la sanatoria di opere realizzate in assenza di titolo edilizio, ma conformi alla normativa applicabile, richiede che gli interventi abusivi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della istanza di sanatoria, non potendosi affatto accogliere l'istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale, la cui attuale praticabilità è stata da tempo esclusa dalla giurisprudenza medesima. Tale approdo, che richiede la verifica della 'doppia conformità', deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l'assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità" (tra le altre, Cons. Stato Sez. VI, 19 agosto 2021, n. 5948).
L'esigenza di tutela sottesa all'art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 in commento è infatti quella di evitare interventi repressivi, qualora l'illecito in concreto commesso sia lesivo del solo interesse pubblico (strumentale) della sottoposizione al previo controllo amministrativo dell'attività edilizia, senza compromissione dell'interesse pubblico (finale) dell'ordinato sviluppo del territorio, nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia all'uopo applicabile. In tali ipotesi, si consente la permanenza delle opere mediante la formazione postuma, una volta commesso l'illecito e a sua sanatoria, del titolo edilizio idoneo a legittimare l'intrapresa attività edificatoria.
4.6 Avuto riguardo al caso di specie, poiché le opere oggetto dell'istanza di sanatoria occupavano una superficie superiore a quella assentitile sulla base della disciplina urbanistica recata dall'art. 12, sub 6, MTA del Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5 - determinata in conformità all'accertamento pregresso recato dal D.P. del 2009, avente tra le parti effetti assimilabili al giudicato -, tali opere non avrebbero potuto essere realizzate, in quanto incompatibili con la disciplina urbanistica vigente al momento dell'esecuzione; con la conseguenza che le stesse opere non avrebbero neppure potuto essere sanate ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, come legittimamente disposto dall'Amministrazione comunale.
5. L'appello risulta, comunque, infondato anche per altre e autonome ragioni.
5.1 In primo luogo, il ricorrente intende proporre un'interpretazione della nozione di lotto urbanisticamente unitario che non trova fondamento nella giurisprudenza amministrativa e nella ratio sottesa al relativo istituto.
Questo Consiglio (tra gli altri, sez. V, 3 aprile 2019, n. 2215), infatti, ha precisato che:
- un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore (nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera e il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa, dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti: pertanto, quando un'area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell'intera area permane invariata, sicché, qualora siano già state realizzate sul lotto originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito;
- in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo;
- l'istituto dell'asservimento in senso tecnico si è configurato in seguito all'entrata in vigore del D.M. n. 1444 del 1968, con il quale sono stati introdotti nell'ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall'art. 17 L. n. 765 del 1967 (introduttivo dell'art. 41-quinquies L. n. 1150 del 1942), limiti inderogabili di densità edilizia;
- in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all'adozione del primo piano regolatore generale di un comune, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia - territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e fondiaria (riferito al singolo lotto) -, in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un'ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell'area non edificata del lotto a servizio dell'edificio realizzato, in termini di complementarietà funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante;
- qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull'area discende ope legis, senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservino unitariamente alla realizzazione di un unico progetto;
- dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto, determinandone la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende ope legis dall'intervenuta utilizzazione del lotto medesimo (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2009, n. 3).
In particolare, l'operatività delle sopra esposte coordinate normative e giurisprudenziali dipende dall'accertamento delle seguenti circostanze, cumulativamente concorrenti:
(i) che il lotto originario sia unitario e unitariamente utilizzato, restando irrilevante il successivo evolversi dell'assetto della situazione proprietaria (atti di trasferimento), catastale (frazionamenti, piani particellari, accatastamenti, escorporazioni, ecc.);
(ii) che esista una norma di piano disciplinante la densità edilizia, oppure, in sua assenza, venga altrimenti individuato un vincolo di asservimento pertinenziale di un'area rispetto alla costruzione a suo tempo realizzata.
5.2 La ratio sottesa alla definizione del lotto urbanisticamente unitario è, dunque, quella di evitare un'elusione della normativa sugli indici di edificabilità, impedendo che, a seguito della costruzione su una parte marginale di ogni area, si provveda ad un suo frazionamento in vista della richiesta di un nuovo titolo abilitativo legittimante l'edificazione sulla porzione rimasta libera, per poi procedere ad ulteriori frazionamenti in modo da edificare ogni volta sulle porzioni di area via via rimasti sgombri, computando gli indici di edificabilità in relazione, anziché al lotto originario, alle singole porzioni territoriali frazionate.
La natura unitaria del lotto, per l'effetto, rileva per rendere insensibili i frazionamenti proprietari e catastali rispetto all'applicazione degli indici di edificabilità - che devono operare in relazione al fondo originario, unitariamente considerato e utilizzato -, ma non ostacola l'esercizio del potere di pianificazione territoriale, anche in funzione riduttiva della capacità edificatoria di un fondo (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 novembre 2017, n. 5419), pure mediante il suo parziale assoggettamento a vincoli di destinazione pubblica.
Qualora il lotto sia sottoposto ad una differenziata disciplina urbanistica (discendente anche dai relativi strumenti attuativi), incentrata sulla previsione di vincoli di destinazione pubblica, la possibilità di considerare l'intera superficie realmente espressa dal lotto, lungi dal poter essere sempre riconosciuta - come sembrerebbe sostenere l'appellante che, facendo leva su una non condivisibile nozione di lotto urbanisticamente unitario, tende infondatamente a ritenere irrilevanti frazionamenti urbanistici nelle more disposti dagli strumenti di pianificazione attuativa - è subordinata alla tipologia di indice di edificabilità concretamente rilevante.
5.3 Nel caso di specie, si discorre dell'indice di copertura, espresso in termini di rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria: trattasi di definizione già assunta alla base del D.P. del 2019 cit., con cui -come osservato- è stato accolto un motivo di impugnazione incentrato proprio sulla violazione dell'indice di copertura di 0,5 (definito come rapporto "tra superficie coperta e superficie fondiaria previsto dall'art. 12 sub 6 delle norme di attuazione al Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5…" - parere n. 965/09 cit.), e, comunque, coerente con le previsioni del Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell'art. 4, comma 1-sexies del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, comunque invocabile quale parametro esegetico nell'interpretazione della pertinente disciplina edilizia.
Come rilevato da questo Consiglio, tale intervento è stato reso necessario al fine di "omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici comunali, rispondente o meno a specifiche indicazioni regolamentari o urbanistiche locali" (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 241). Il riferimento a tali definizioni uniformi risulta, quindi, utile al fine di individuare il paradigma cui ricondurre, almeno astrattamente, la fattispecie concreta, alla stregua di quanto emergente dalla documentazione in atti.
Per quanto più di interesse, anche il Regolamento edilizio-tipo conferma che l'indice di copertura è dato dal "rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria".
Al fine di assicurare il rispetto di tale indice, occorre, dunque, computare la superficie fondiaria, cui applicare il rapporto di copertura (come definito dalla disciplina urbanistica di riferimento), per individuare il limite di superficie suscettibile di essere coperta con l'edificazione.
Diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, tuttavia, la superficie fondiaria non corrisponde alla complessiva superficie reale del fondo oggetto di trasformazione urbanistica, ma soltanto alla superficie reale destinata all'uso edificatorio, al netto delle aree per dotazioni territoriali (in termini, cfr. Regolamento Tipo Edilizio cit.).
Del resto, come chiarito da questo Consiglio (sez. IV, 13 novembre 2018, n. 6397), la superficie territoriale e la superficie fondiaria rilevano differentemente in ambito urbanistico, a seconda che si faccia questione di una conformazione di un'intera zona omogenea ovvero di una singola area (o di un singolo lotto - Consiglio di Stato, sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2215): difatti, mentre l'indice di densità territoriale (che definisce la quantità massima di superficie o di volume edificabile su una data superficie territoriale), è riferibile a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, tendendo a definire il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona e venendo rapportato all'intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici o, per quanto più di interesse, quelli destinati alla viabilità, l'indice di densità fondiaria (che definisce la quantità massima di superficie o di volume edificabile su una data superficie fondiaria) è riferibile alla singola area, definendo il volume massimo edificabile sulla stessa. Tale ultimo indice risulta applicabile all'effettiva superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle aree destinate ad uso pubblico.
L'indice di copertura, dunque, definendo un limite di estensione della superficie suscettibile di edificazione, non può essere computato tenendo conto, altresì, delle porzioni territoriali destinate ad uso pubblico.
5.4 Avuto riguardo al caso di specie, il lotto di proprietà dell'odierno ricorrente risultava soltanto in parte suscettibile di edificazione, risultando una sua porzione assoggettata dal piano particolareggiato ad un vincolo di destinazione a pubblica viabilità; con la conseguenza che tale porzione, in quanto insuscettibile di edificazione, non avrebbe potuto essere computata nell'ambito della nozione di superficie fondiaria e, dunque, non avrebbe potuto rilevare per il calcolo del rapporto di copertura per cui è controversia.
Il Comune, per l'effetto, una volta evidenziato che il piano particolareggiato di zona B aveva individuato in modo definitivo la viabilità, gli isolati e confermato l'indice di copertura nel 50% di superficie copribile, ha legittimamente escluso la possibilità di computare la superficie della viabilità ai fini delle volumetrie o degli standard di superficie coperta, non trattandosi di superficie fondiaria.
Di conseguenza, dovendo scomputarsi tale porzione territoriale, considerata la superficie già legittimamente realizzata in forza di titoli edilizi precedentemente rilasciati (787 mq), la superficie occupata dalle opere oggetto dell'istanza di sanatoria, sommata all'edificato esistente (in applicazione del principio del lotto urbanisticamente unitario), risultava superiore rispetto a quella ammissibile in base all'indice di copertura confermato dal Piano Particolareggiato; il che manifestava una violazione della relativa disciplina urbanistica ostativa all'accoglimento della domanda di accertamento di conformità
5.5 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure ritenendo che il vincolo di destinazione posto dal piano particolareggiato, risultando preordinato all'esproprio, fosse medio tempore decaduto.
La scadenza di un vincolo espropriativo non determina, infatti, la reviviscenza della previgente destinazione urbanistica (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8125), ma, nelle more dell'adempimento in capo all'ente locale dell'obbligo di normazione dell'area (la cui inosservanza potrebbe, peraltro, essere censurata in giudizio dalla parte privata), ne comporta una limitata edificabilità, nella misura stabilita dall'articolo 9, D.P.R. n. 380 del 2001 ovvero dalle diverse disposizioni di legge regionale ove esistenti.
Per l'effetto, non potendo ritenersi che la porzione territoriale soggetta a vincolo espropriativo decaduto (di pubblica viabilità) sia sussumibile sotto la disciplina urbanistica dettata per la zona B5, operante soltanto per le rimanenti porzioni del fondo, non potrebbe estendersi l'applicazione dell'indice di copertura dello 0,5 anche ad una porzione territoriale soggetta a differenti indici di densità edilizia, come emergenti dalla disciplina dettata dall'artt. 9, del D.P.R. n. 380 del 2001 (o dalle diverse disposizioni di legge regionale ove esistenti) ovvero dalla nuova normazione dell'area assunta dall'Amministrazione comunale.
In altri termini, la superficie espressa dall'area per cui è causa, già gravata da un vincolo di destinazione pubblica, una vota decaduto il vincolo, non avrebbe potuto comunque essere sommata a quella generata dalla rimanente porzione del lotto, al fine di verificare il rispetto dell'indice di copertura dello 0,5: si fa, infatti, questione di una porzione territoriale non classificabile come B5, in quanto sottoposta al differente regime di cui all'art. 9, D.P.R. n. 380 del 2001, come tale non assoggettabili ad indici di densità edilizia (quale l'indice di copertura dello 0,5 per cui è causa) previsti per differenti zone territoriali (B5).
6. Alla luce delle considerazioni svolte, l'appello deve essere rigettato per concorrenti ed autonome ragioni.
L'impugnazione in esame, infatti, da un lato, è argomentata sulla base di un presupposto (dato dall'estensione della superficie computabile per la verifica dell'indice di copertura) contrastante con quello già accertato con effetti di giudicato inter partes dal D.P. del 2009 (assunto sul presupposto di una superficie rilevante estesa per mq 1578); dall'altro, comunque, è incentrata su deduzioni che non trovano riscontro nella giurisprudenza e nella disciplina urbanistica di riferimento, tenuto conto che:
- i principi in tema di lotto urbanisticamente unitario non impongono, a prescindere dall'indice di edificabilità preso in esame, il computo dell'intera superficie realmente espressa dal lotto, ma sono funzionali ad evitare che frazionamenti proprietari o catastali possano incrementare la volumetria e la superficie coperta; il che si verificherebbe se si considerassero atomisticamente, ai fini del calcolo degli indici di edificabilità, le singole porzioni territoriali medio tempore frazionate dalle parti private;
- tali principi, pertanto, da un lato, impongono di tenere conto della superficie coperta e del volume già generato da preesistenti edificazioni insistenti sul lotto unitario, come ritenuto da questo Consiglio nel parere reso in sede di procedimento per ricorso straordinario; dall'altro, non permettono di ritenere irrilevanti le differenti destinazioni urbanistiche impresse dalla disciplina (anche attuativa) urbanistica di riferimento, riguardando i soli frazionamenti proprietari e catastali;
- la possibilità di computare l'intera superficie realmente espressa dal lotto urbanisticamente unitario discende, pertanto, anziché dai principi del lotto urbanisticamente unitario, dalla tipologia di indice di edificabilità preso in esame;
- l'indice di copertura, rilevante nel caso di specie, misura il rapporto tra la superficie coperta e la superficie fondiaria, intendendosi per tale la sola superficie suscettibile di edificazione, con esclusione delle porzioni territoriali soggette a vincoli di destinazione a uso pubblico, quale la pubblica viabilità;
- anche in presenza di un vincolo espropriativo, la sua decadenza non consentirebbe la reviviscenza dell'originaria disciplina urbanistica e, dunque, non permetterebbe di applicare alla relativa porzione territoriale, ancora da normare, gli indici di edificabilità previste per altre zone del territorio comunale.
Per l'effetto, nel caso di specie:
- la differenziazione tra gli indici di densità edilizia non avrebbe potuto essere condizionata dalla circostanza per cui la zona di riferimento fosse classificata come B5: la distinzione tra indice di densità fondiaria e indice di densità territoriale, come osservato, varia, anziché in ragione della zona presa in esame, dalla diversa funzione da ciascuno di essi svolta, tenuto conto che l'indice di densità territoriale definisce il complessivo carico di edificazione suscettibile di gravare su ciascuna zona omogenea, mentre l'indice di densità fondiaria definisce il volume massimo edificabile sulla singola area stessa, determinata al netto delle porzioni sottoposte a vincoli di destinazione pubblica, quale la destinazione a viabilità per cui è causa;
- lo strumento di pianificazione attuativa, che ha definito la porzione territoriale del lotto di proprietà del ricorrente destinata a viabilità, non è stato tempestivamente impugnato, né potrebbe essere disapplicato in via ermeneutica nell'odierno giudizio, sia perché non emerge una incompatibilità con una norma primaria regolante la materia, in grado di imporsi (in sostituzione di quella secondaria) come fonte di regolazione del rapporto controverso, sia perché la disapplicazione in materia urbanistica non potrebbe operare in relazione alle prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2016, n. 475), quali sono quelle dettate dal piano particolareggiato per cui è causa, incidenti su una porzione del lotto di proprietà del ricorrente, destinato a pubblica viabilità;
- la sottoposizione di una porzione del lotto al vincolo di destinazione a viabilità pubblica impediva di computare tale porzione territoriale nell'ambito della superficie fondiaria rilevante per determinare il limite massimo di copertura del lotto;
- decaduto il vincolo espropriativo, non poteva comunque conservarsi, in relazione alla relativa porzione territoriale, la classificazione come area B di completamento residenziale, operando la disciplina di cui all'art. 9 D.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente impossibilità di estendere alla porzione territoriale gravata da un vincolo espropriativo decaduto l'indice di copertura previsto per altre aree normate dallo strumento di pianificazione urbanistica;
Ne deriva che la porzione del lotto di proprietà del ricorrente -dapprima, sottoposta a vincolo di destinazione pubblica, successivamente, ad un regime edilizio ed urbanistico differente da quello delineato per la zona B5 dagli strumenti di pianificazione territoriale comunali- non avrebbe potuto essere computata al fine di determinare la superficie fondiaria da assumere a fondamento del calcolo della massima copertura edificabile
Non potrebbe, peraltro, neppure invocarsi il precedente di questo Consiglio di Stato (n. 3106/13), che non ha affermato il principio per cui, ai fini del calcolo dell'indice di copertura, è irrilevante la destinazione a pubblica viabilità impressa dallo strumento di pianificazione attuativa ad una porzione di un lotto unitario, ma semplicemente ha accertato che il lotto oggetto del relativo giudizio non risultava asservito in favore dell'edificazione in precedenza realizzata per effetto di un piano di lottizzazione sui lotti circostanti.
Tali rilievi non sono conferenti rispetto al caso di specie, dove non si discute sull'asservimento del lotto di proprietà del ricorrente rispetto all'edificazione assentita su lotti circostanti, ma di imposizione di un vincolo destinazione su una porzione di un lotto unitario, idonea, come osservato, a ridurre l'estensione della superficie fondiaria computabile per definire il limite di superficie suscettibile di essere coperta per effetto dell'edificazione.
Tale limite, da determinare scomputando la porzione di lotto destinata a viabilità dalle disposizioni del citato piano particolareggiato, risultava superato dall'edificazione delle opere per cui è causa, con conseguente emersione di una violazione urbanistica (dell'indice di copertura) ostativa alla sanatoria richiesta in sede amministrativa.
7. Alla luce delle considerazioni svolte, l'appello deve essere rigettato e, per l'effetto, deve essere confermata la sentenza impugnata.
La particolarità della controversia giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio del grado di appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa interamente tra le parti le spese di giudizio del grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti processuali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Giordano Lamberti, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere
Francesco De Luca, Consigliere, Estensore
Cons. Stato Sez. II, 26-01-2022, n. 546 (P.S. c. Comune di Ranica e altri): Secondo la disciplina del Codice del processo amministrativo, la verificazione, di cui all'art. 66 del D.Lgs. n. 104 del 2010 consiste essenzialmente in un accertamento disposto la fine di completare la conoscenza dei fatti che non siano desumibili dalle risultanze documentali e si distingue dalla consulenza tecnica (prevista dall'art. 67 del D.Lgs. n. 104 del 2010) che si estrinseca in una valutazione di situazioni da utilizzare ai fini della decisione, dall'oggetto non meramente ricognitivo e circoscritto ad un fatto specifico, e la cui soluzione richiede specifiche cognizioni tecniche (massima)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7509 del 2015, proposto dal signor GILBERTO DELLO RUSSO, rappresentato e difeso dall’avvocato Aldo Ceci, con domicilio eletto presso l’avvocato Maria Rosa Suraci in Roma, via G. Ferrari n. 12;
contro
La signora MARIANA CARUSO, rappresentata e difesa dall’avvocato Dario La Torre, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere dei Mellini n. 10;
nei confronti di
Il COMUNE DI FROSINONE, in persona del Sindaco p.t., non costituito in giudizio;
per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO - LATINA – SEZ. I n. 272/2015;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora MARIANA CARUSO;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Aldo Ceci e Dario La Torre;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I. Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la signora Miriana Caruso ‒ odierna appellante ‒ ha impugnato la concessione in sanatoria 12 luglio 2006, n. 9875/S, rilasciata al signor Gilberto Dello Russo relativamente alle opere realizzate sull’edificio sito in Frosinone alla via G. Matteotti, n. 10 ricadente in zona A, del vigente P.R.G.
Tali opere consistevano «nell’ampliamento dell’appartamento di civile abitazione al piano terzo (sub 13) per la s.u. di mq. 8,97 e s.n.r. di mq. O; nell’ampliamento dell’appartamento di civile abitazione al piano secondo (sub 11) per la s.u. di mq. 9,92 e s.n.r. di mq. O; nella realizzazione di un vano ascensore con relativa piattaforma di sbarco e nelle opere non valutabili in termini di superficie consistenti nella realizzazione di rampe di accesso al piano terra, il tutto per il volume di mc. 262,44».
I.1. A sostegno della impugnativa, la ricorrente lamentava:
- il difetto di legittimazione alla presentazione della domanda di condono (in quanto l’abuso sanato interesserebbe un corpo di fabbrica autonomo, insistente sul suolo di proprietà comune, in aderenza al fabbricato condominiale);
- l’impossibilità dell’adeguamento sismico (con conseguente violazione dell’art. 32, comma 27, lettera b, della legge n. 326 del 2003, e degli artt. 3 e 6 della legge della Regione Lazio n. 12 del 2004, i quali prevedono l’insanabilità degli abusi per i quali non è possibile effettuare adeguamenti antisismici, là dove involga abusi su immobili relativi ad edifici ricadenti in comuni inclusi nell’OPCM espressamente richiamata);
- la violazione dell’art. 2 della legge della Regione Lazio n. 12 del 2004 e degli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, posto che il contestato intervento dovrebbe essere configurato come “ristrutturazione edilizia”, ammissibile soltanto nei limiti in cui sia stata rispettata la sagoma dell’originario fabbricato;
- il superamento dei limiti volumetrici in relazione alle singole categorie entro le quali l’intervento sarebbe inquadrabile (in violazione dell’art. 2 della legge della Regione Lazio n. 12 del 2004).
I.2. La sentenza impugnata ha annullato la concessione in sanatoria, accogliendo il motivo incentrato sull’eccesso di volumetria, con assorbimento degli ulteriori profili non espressamente esaminati.
Si afferma, in particolare, «che l’intervento unitario risulta superiore sia al limite volumetrico che a quello percentuale (2.096x20% ossia a mc. 419,23), ammessi in forza delle disposizioni di cui alla legge della Regione Lazio n. 12 del 2004».
I.3. Il controinteressato nel giudizio di primo grado, signor Gilberto Dello Russo, ha proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto del ricorso di primo grado.
L’appellante lamenta l’erroneità della decisione gravata, in quanto frutto a suo dire di un errore istruttorio in ordine alle reali circostanze di fatto del giudizio.
Egli premette che la domanda di condono in esame (l’unica ad oggi definita dalla p.a.) si sarebbe limitata a riproporre la sanatoria delle opere da tempo eseguite sulla scorta della concessione n. 4367 del 1994, poi annullata dalla p.a., e consistenti nella realizzazione nello spazio antistante il preesistente corpo scala, già chiuso a tre lati, di un nuovo corpo di fabbrica consistente in un vano ascensore ed opere accessorie, che hanno determinato la creazione di un ampliamento dell’appartamento all’ultimo piano e la creazione di logge in corrispondenza degli altri piani.
La “chiusura” del vano scala preesistente non avrebbe creato una nuova volumetria edilizia urbanisticamente rilevante, in quanto la scala preesistente era già chiusa a tre lati sin dall'epoca remota di costruzione del palazzo.
Occorrerebbe poi considerare che, nell’ambito della nuova volumetria realizzata dall’appellante e dichiarata in complessivi mc. 262,44 nel titolo edilizio a sanatoria, risulta compreso, oltre ai preesistenti volumi pertinenziali (a sbalzo) dei singoli appartamenti e pianerottoli, anche il corpo destinato a vano ascensore.
Tale corpo, sia per espressa previsione del regolamento edilizio comunale e sia per la previsione della normativa tecnica in tema di eliminazione delle barriere architettoniche ex legge n. 13/1989, rappresenterebbe un mero volume tecnico che non potrebbe essere computato nell’ambito dei limiti ex art. 2 della L.R. n. 12/2004 ovvero, più in generale, dell’art. 32 del D.L. n. 269/2003.
Pertanto, la volumetria edilizia effettivamente realizzata e rilevante, detratta la preesistenza ed in volumi tecnici di complessivi mc. 79,81, sarebbe in realtà pari a mc. 182,63 e non mc. 262,44 complessivamente indicati nella domanda di condono.
Sotto altro profilo, la volumetria del locale garage ‒ realizzato nel sottosuolo del lotto di pertinenza ex art. 9 legge n. 122/1989, e incluso in una distinta e differente domanda di sanatoria non ancora istruita e conclusa da parte della p.a. (prot. n. 57.890 del 14.12.2004) ‒ dovrebbe reputarsi del tutto influente ai fini della valutazione della legittimità del titolo edilizio a sanatoria oggetto del presente giudizio.
Su queste basi, l’appellante afferma che i limiti volumetrici indicati dall’art. 2 della legge della Regione Lazio n. 12 del 2004, sarebbero stati rispettati, a prescindere da qualsiasi inquadramento voglia essere attribuito alle opere realizzate.
a) Infatti, se le opere condonate dovessero essere inquadrate nell’ambito della “nuova opera”, quanto realizzato al netto del volume tecnico del vano ascensore (pari a mc. 182,63) rientrerebbe ampiamente nel limite volumetrico, sia assoluto, che relativo per abusi relativi ad abitazioni non destinate a prima casa (182,63 mc. < 300,00 mc.).
b) Qualora le opere condonate dovessero invece essere inquadrate nell’ambito dell’ampliamento, quanto realizzato al netto del volume tecnico del vano ascensore (pari a mc. 182,63) rientrerebbe nuovamente nel limite volumetrico percentuale del 20% (2.096 x 20% = 419,23) (182,63 mc. < 419,23 mc.) e anche in quello alternativo di mc. 200 (182,63 mc. < 200 mc.). Tali parametri non muterebbero, qualora si volesse aggiungere alla predetta volumetria quella relativa al garage (mc 184,13): 182,63 mc. + 184,13 mc. = 366,76 mc. < 419,23 mc.
Quanto alla non adeguabilità dal punto di vista sismico dei lavori eseguiti, si tratta di censura proposta in primo grado e rimasta assorbita nel pronunciamento appellato: le opere oggetto della concessione in sanatoria impugnata in primo grado sarebbero state realizzate sin dal 1994 in forza del titolo edilizio poi annullato dalla p.a., apparendo così ininfluenti, al fine della loro valutazione “sismica”, le successive modifiche normative e di inquadramento del relativo rischio.
Peraltro, il quadro normativo sarebbe rimasto comunque immutato per il territorio di riferimento dal 1984 in poi, risultando il Comune di Frosinone classificato sismico di II categoria anche dall’O.P.C,M. n. 3274/2003.
Quanto al difetto di legittimazione del signor Dello Russo per la presentazione della domanda di condono ‒ censura anch’essa proposta in primo grado e rimasta assorbita nel pronunciamento appellato ‒ la sentenza della Corte d’Appello n. 5582 del 2012 (attualmente gravata con ricorso per cassazione) avrebbe riconosciuto il suo diritto di eseguire innovazioni nella parte comune.
I.4. Si è costituito in giudizio la signora Miriana Caruso, chiedendo il rigetto dell’appello principale. L’appellata ha altresì promosso appello incidentale ed ha riproposto i motivi assorbiti nel giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a.
I motivi dell’appello incidentale, proposti subordinatamente all'accoglimento di quello principale sono i seguenti:
- la sentenza sarebbe erronea, in quanto, avendo ricondotto le opere oggetto del condono rilasciato tra gli “ampliamenti” e nel ritenere superati i limiti volumetrici e percentuali ammessi dalla legislazione regionale proprio per tali abusi, avrebbe dovuto affermare la fondatezza del ricorso con riferimento al quinto motivo e non al quarto motivo inerente il superamento dei diversi limiti volumetrici ammessi per le opere abusive costituenti nuova costruzione;
- nel parametro cui rapportare il limite volumetrico percentuale (20%) ammesso dalla normativa regionale per gli ampliamenti, i giudici di prime cure non avrebbero dovuto computare anche la volumetria di proprietà di soggetti diversi da quello richiedente la sanatoria (in particolare, gli appartamenti posti al secondo piano del fabbricato, di proprietà della ricorrente e di altra condomina), con la conseguenza che il limite volumetrico percentuale del 20% sarebbe ovviamente inferiore a quello (mc. 419,23);
- le opere abusivamente realizzate si sarebbero dovute ricondurre tra gli interventi di ristrutturazione edilizia, le quali sarebbero però sanabili solo se «eseguite all’interno della sagoma originaria del fabbricato», come previsto dalla lettera e), dell’art. 2 della L.R. 12/2004, con conseguente illegittimità del provvedimento impugnato;
- le opere abusivamente realizzate dovrebbero essere qualificate di “nuova costruzione” e non come “ampliamenti” del fabbricato preesistente.
I.5. L’amministrazione comunale non si è costituita.
I.6. Con ordinanza del 7 ottobre 2015 n. 4586, la Sezione, ai soli fini di pervenire alla definizione del giudizio nel merito re adhucintegra, ha accolto l’istanza cautelare di sospensione della esecutività della impugnata sentenza.
I.7. All’esito dell’udienza del 2 febbraio 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
I. Ritiene la Sezione che l’appello principale sia infondato.
I.1. Il giudice di prime cure ha correttamente rilevato l’illegittimità del provvedimento impugnato in relazione al superamento dei limiti volumetrici indicati dall’art. 2, comma 1, lettera a), della L.R. Lazio n. 12/2004.
I.2. Occorre premettere che il signor Dello Russo ha presentato le seguenti 5 domande di condono edilizio:
- illecito n. 1: riguardante il piano attico per l’adeguamento del bagno, della veranda e la realizzazione dell’ascensore e piano di sbarco a tutti i piani, prot. n. 57889 del 14 dicembre 2004, costituente integrazione della domanda (già prot. 15914 del 30 marzo 2004);
- illecito n. 2: riguardante la creazione di un locale ad uso bagno senza barriere architettoniche mediante chiusura della veranda, un locale impianti, una piscina, un ripostiglio, un parcheggio interrato, rampe di accesso e lavori di manutenzione straordinaria prot. n. 57.890 del 14 dicembre 2004, costituente integrazione della domanda (già prot. 15914 del 30 marzo 2004);
- illecito n. 3: riguardante il balcone della odierna appellata sig.ra Caruso, prot. n. 57.891 del 14 dicembre 2004 costituente integrazione della domanda (già prot. 15915 del 30 marzo 2004);
- illecito n. 4: riguardante il balcone delle signore Silvestri, prot. n. 57.892 del 14 dicembre 2004, costituente integrazione della domanda (già prot. 15917 del 30 marzo 2004);
- illecito n. 5 riguardante la creazione di un soppalco ed il frazionamento dell’appartamento dell'appellante (piano terra) (ex sub 1) tre distinte unità, prot. n. 57.893 del 14 dicembre 2004.
La concessione in sanatoria oggetto del presente giudizio riguarda la prima domanda inerente il vano ascensore e gli ampliamenti.
I.3. L’art. 2 della legge della Regione Lazio 8 novembre 2004, n. 12 (Disposizioni in materia di definizione di illeciti edilizi), per quanto qui di interesse, recita: «1. Sono suscettibili di sanatoria, purché siano state ultimate ai sensi dell' articolo 31, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) e successive modifiche, entro il 31 marzo 2003, le seguenti opere abusive: a) opere realizzate in assenza del o in difformità dal titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici approvati o adottati al 31 marzo 2003, che non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al venti per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, superiore a 200 metri cubi; b) opere di nuova costruzione a destinazione esclusivamente residenziale realizzate in assenza del o in difformità dal titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici approvati o adottati al 31 marzo 2003 che: 1) non abbiano comportato la realizzazione di un volume superiore a 450 metri cubi per singola domanda di titolo abilitativo edilizio in sanatoria a condizione che la nuova costruzione non superi, nel suo complesso, 900 metri cubi, nel caso in cui si tratti di unità immobiliare adibita a prima casa di abitazione del richiedente nel comune di residenza; 2) non abbiano comportato la realizzazione di un volume superiore a 300 metri cubi per singola domanda di titolo abilitativo edilizio in sanatoria a condizione che la nuova costruzione non superi, nel suo complesso, 600 metri cubi, nel caso in cui non si tratti di unità immobiliare adibita a prima casa di abitazione del richiedente nel comune di residenza».
I.4. Ebbene, l’amministrazione illegittimamente non ha computato il complesso degli incrementi di cubatura realizzati dal controinteressato.
L’interpretazione della richiamata norma regionale non può prescindere dai principi affermati in proposito dalla giurisprudenza, secondo cui l’opera abusiva va identificata con riferimento all’unitarietà dell’immobile o del complesso immobiliare, ove sia stato realizzato in esecuzione di un disegno unitario, essendo irrilevanti la suddivisione in più unità abitative e la presentazione di istanze separate (cfr. ex plurimis: Consiglio di Stato sez. VI, 5 settembre 2012 n. 4711; Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo 2001, n. 1229).
Diversamente opinando, sarebbero agevolmente elusi i limiti consentiti per il condono relativamente al calcolo della volumetria consentita.
Su queste basi, solo considerando la volumetria sanata dal provvedimento impugnato e quella del garage (che costruisce ampliamento delle unità immobiliari dell’appellante), ci si avvede del superamento del predetto limite alla condonabilità, sia volumetrico (mc. 200) che percentuale (2096 x 20% = me. 419,23).
Difatti: 262,44 + 184,13 = 446,57. Aggiungendo la volumetria generata dalla preesistente scala condominiale (pari a 170,40 mc, come risulta dalla documentazione acquisita), si arriva a 616,97 mc.
I.5. Inammissibile risulta la censura con la quale l’appellante sostiene per la prima volta in appello che dalla volumetria espressamente richiesta e condonata di 262,44 mc andrebbe detratto il corpo destinato a vano ascensore.
Difatti, il controinteressato – qualora nel giudizio di primo grado non abbia proposto ricorso incidentale avverso l’atto impugnato a sé favorevole (al fine di paralizzare la possibilità di accoglimento del ricorso principale, introducendo una ragione ostativa all’accoglimento delle censure con esso dedotte) - non può poi introdurre in appello nuovi motivi di censura che si traducono in una contestazione “incidentale” del provvedimento impugnato (per la quale è oramai decorso il termine decadenziale di proposizione), con l’effetto di ampliare (ciò che non è consentito dall’art. 104 comma 1, c.p.a.) il thema decidendum cristallizzato nel giudizio di primo grado.
I.6. È infondata la tesi secondo cui la preesistente scala condominiale aperta su un lato, costituendo volumetria edilizia già inclusa nell’originario titolo edilizio, non potrebbe essere computata ai fini del condono delle opere che hanno comportato la chiusura del quarto lato.
In senso contrario, è dirimente osservare che la chiusura su quattro lati della scala condominiale altera irrimediabilmente il preesistente stato dei luoghi, modifica la sagoma dell’edificio e comporta aumento di volumetria (mc 170 circa) che va necessariamente computato ai fini del rispetto delle condizioni di ammissibilità del condono.
II. Ai sensi dell’art. 101 c.p.a., l’appellata ha riproposto il primo e il secondo motivo del ricorso introduttivo, dichiarati assorbiti in primo grado.
II.1. È fondata la censura di difetto di legittimazione dell’appellante alla presentazione della domanda di condono (inerente il vano ascensore e gli ampliamenti).
È inapplicabile l’istituto del condono laddove l’abuso sia stato realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di adeguati elementi di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, altrimenti, l’amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 giugno 2008, n. 3282).
Nel caso di specie, la richiesta dell’appellante, formulata in sede amministrativa, è stata preceduta da una manifestazione di volontà autorizzatoria dei comproprietari solo con riferimento alle opere realizzate sulle parti comuni finalizzate alla eliminazione delle barriere architettoniche (anche il giudizio civile pendente ha riconosciuto il diritto ex art. 1102 c.c. di eseguire innovazioni solo per quanto riguarda l’installazione del solo impianto ascensore con componenti e apparecchiature accessorie).
Alcuna verifica della legittimazione del condomino richiedente la sanatoria è stata invece compiuta dal Comune con riguardo alle ulteriori innovazioni eseguite sulle parti comuni, che hanno comportato la chiusura dello spazio sovrastante il cortile; nonostante l’appellata avesse fatto pervenire (cfr. in atti doc. 9 e 12) la propria opposizione al condono, stante la riduzione di luce ed aria della cucina e del bagno che ne sarebbe derivata alla sua proprietà.
In presenza di un conclamato dissidio in ordine alla legittimità delle opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni, l’amministrazione avrebbe dovuto verificare l’esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, ritenendo necessaria la dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche per l’esecuzione delle opere consistenti nella chiusura del corpo scala preesistente, nella creazione dell’androne di ingresso, nell’ampliamento dell’appartamento di proprietà del controinteressato.
II.2. Non può invece essere accolta la censura con la quale l’appellata sostiene l’impossibilità dell’adeguamento sismico del manufatto condonato, con conseguente violazione dell’art. 32, comma 27, lettera b), della legge n. 326 del 2003, e degli artt. 3 e 6 della legge della Regione Lazio n. 12 del 2004.
La Regione Lazio, Ufficio dell’ex Genio Civile, prot. n. 4065 del 2 settembre 2003, ha certificato che le opere oggetto della sanatoria in esame risultavano già in possesso dell’autorizzazione sismica n. 8302 dell’11 maggio 1994 (pos. 1041/1994 - relativa al vano ascensore ed accessori) e n. 11556 del 18 ottobre 1993 (pos. 1650/1993 - relativa al garage).
Inoltre, all’epoca della domanda di condono, la categoria sismica relativa al centro storico (capoluogo) del Comune di Frosinone non era mutata.
III. Possono assorbirsi i motivi dell’appello incidentale in quanto proposti soltanto subordinatamente all’accoglimento del ricorso principale.
IV. Per le ragioni che precedono, l’appello principale va respinto, mentre vanno in parte accolte le censure assorbite in primo grado, riproposte in questa sede.
Il dispositivo d’annullamento della sentenza impugnata va confermato, con parziale integrazione della sua motivazione.
Le spese del secondo grado seguono la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello principale n. 7509 del 2015, come in epigrafe proposto, lo respinge, accoglie in parte le censure assorbite in primo grado e riproposte in grado d’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado con integrazione della sua motivazione.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite in favore dell’appellata, che si liquidano in € 4000,00 (quattromila), oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2017, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Dario Simeoli
Luigi Maruotti
IL SEGRETARIO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1940 del 2011, proposto dalle signore Vittoria Bortolotti, Lorenza Morara e Federica Morara, rappresentati e difesi dall'avvocato Angelo Scavone, con domicilio eletto presso lo studio della signora Camilla Bovelacci in Roma, via Quintino Sella, 41;
contro
Il Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
il Comune di Castel San Pietro Terme, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA - BOLOGNA: SEZIONE II n. 268/2010, resa tra le parti, concernente l’annullamento – da parte del Ministero - di una autorizzazione paesaggistica per condono edilizio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 marzo 2017 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti l’avvocato Scavone Angelo e l’avvocato dello Stato Federico Basilica;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 268 del 27 gennaio 2010, il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna (Sezione Seconda) rigettava il ricorso proposto dalle signore Bortolotti Vittoria, Morara Lorenza, Morara Federica, quali eredi di Morara Giuseppe, inteso ad ottenere l’annullamento del provvedimento del 22 luglio 1996 con il quale il Direttore Generale dell’Ufficio centrale per i beni ambientali e paesaggistici del Ministero per i beni ambientali e culturali aveva annullato l’autorizzazione paesaggistica n. 5130 del 29 novembre 1995, rilasciata, ex art. 7 della legge n. 1497/1939, dal Sindaco del Comune di Castel San Pietro Terme per la sanatoria di immobili abusivamente realizzati, in attuazione della legge sul condono edilizio straordinario.
La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.
«Con il ricorso in epigrafe viene impugnato il decreto del Direttore Generale del Ministero per i beni ambientali e paesaggistici del 22-7-1996, di annullamento del provvedimento del 22-11-1995 con cui il Sindaco del Comune di Castel San Pietro Terme ha rilasciato l’autorizzazione ambientale ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1437/1939 riferita a lavori di costruzione di alcuni manufatti abusivi ricadenti in zona agricola di salvaguardia ambientale tutelata dalla legge n. 431/1985. Il provvedimento impugnato pone a fondamento del disposto annullamento sia il fatto che il provvedimento comunale di autorizzazione non è sufficientemente motivato, poiché non spiega le ragioni della compatibilità dell’intervento con le caratteristiche e le peculiarità dell’area tutelata, sia la circostanza che l’autorizzazione del Comune comporta il consolidamento di una situazione di fatto che contrasta con il vincolo paesaggistico che interessa l’area. Col ricorso avverso il suesposto provvedimento ministeriale di annullamento vengono formulate censure di violazione di legge e di eccesso di potere sotto vari profili»..
Avverso la sentenza di rigetto, le signore Bortolotti Vittoria, Morara Lorenza e Morara Federica hanno proposto appello, deducendo l’erroneità della sentenza e chiedendone l’annullamento, con conseguente accoglimento del ricorso depositato in primo grado.
Esse hanno lamentato:
1) violazione dell’art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977;
2) eccesso di potere per insussistenza dei presupposti di fatto, nonché per difetto di motivazione, motivazione illogica, incongrua e contraddittoria;
3) violazione del principio di economia e di buon andamento.
Si è costituito in giudizio l’intimato Ministero, il quale ha dedotto l’infondatezza del ricorso e ne ha chiesto il rigetto.
In corso di giudizio sono state prodotte memorie illustrative.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 23 marzo 2017.
DIRITTO
Gli appellanti deducono, con articolata prospettazione, la violazione dell’articolo 82 del D.P.R. n. 616 del 1977; eccesso di potere per insussistenza dei presupposti di fatto, nonché per difetto di motivazione – motivazione incongrua, illogica e contraddittoria; violazione del principio di economia e di buon andamento.
Con un primo motivo, essi censurano la sentenza di primo grado in quanto non avrebbe valutato che, dietro un formale annullamento per difetto di motivazione, in realtà il Ministero ha annullato la sanatoria in quanto ha ritenuto, diversamente dal Comune, che le opere non fossero compatibili con il territorio.
Le interessate evidenziano che, ove il motivo di annullamento ministeriale fosse stato effettivamente il difetto di motivazione, il Ministero si sarebbe dovuto limitare ad inviare nuovamente gli atti del procedimento al Comune.
Al contrario, il Direttore Generale avrebbe illegittimamente espresso un giudizio di merito, sostituendosi al giudizio di apprezzamento della compatibilità paesaggistica dell’opera, che spetta invece al Comune.
Inoltre, le appellanti hanno rilevato che l’annullamento della autorizzazione paesaggistica per difetto di motivazione consentirebbe la riapertura del procedimento di rilascio del parere da parte del Comune, il quale potrebbe congruamente motivare una ulteriore autorizzazione, per consentire all’organo ministeriale di effettuare il controllo di legittimità di sua competenza.
Le censure delle appellanti vanno respinte, poiché risulta effettivamente illegittima l’originaria autorizzazione, rilasciata dal Comune di Castel San Pietro Terme nel corso del procedimento riguardante il condono degli abusi commessi.
Il provvedimento ministeriale impugnato si fonda su di una pluralità di ragioni, tra loro autonome, ciascuna di per sé idonea a sorreggere la statuizione adottata.
Trova, pertanto, applicazione il principio giurisprudenziale secondo il quale l’atto amministrativo fondato su più ragioni è da considerarsi legittimo quando ne esista almeno una idonea a sostenere l’atto stesso (cfr. Cons.Stato, V, 6 novembre 1992, n.1180).
Orbene, ritiene la Sezione che legittimamente l’autorità ministeriale ha rilevato, ponendolo a base del disposto annullamento, il difetto di motivazione dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità comunale.
L’articolo 82 del DPR n. 616/1977 (di poi la normativa di cui all’art. 151 del D.Lgs. n. 490/1999 e poi quella transitoria, contenuta nell’art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004) ha configurato un sistema complesso di tutela del paesaggio, implicante l’esercizio di potere sia della Regione (o della autorità da essa subdelegata) che dello Stato, in cui la concorrenza dei poteri è disciplinata dal principio di leale cooperazione.
Con specifico riferimento ai poteri della Regione (o dell’ente subdelegato), va rilevato che la funzione dell’autorizzazione è quella di verifica della compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo.
Quest’ultimo contiene un accertamento circa l’esistenza di valori paesistici oggettivamente non derogabile: è compito dell’autorizzazione accertare in concreto la compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità dei richiamati valori.
Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l’autorità amministrativa non deve svolgere una ponderazione comparativa tra un interesse primario ed un interesse secondario, ma unicamente operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’ente locale deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente, recando l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l’indicazione della ricostruzione dell’iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che – in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi - possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (oltre ai principi enunciati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2001, cfr. Cons.Stato, VI, 5 luglio 1990, n. 692; 14 novembre 1991, n. 828; 25 settembre 1993, n. 963; 20 giugno 1995, n. 952).
E’, dunque, necessario motivare l’autorizzazione in modo tale che emerga l’apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria (cfr. Cons. Stato, VI, 4 giugno 2004, n. 3495), non potendo l’autorità amministrativa limitarsi ad affermazioni apodittiche e dovendosi pure riferire non all’entità atomisticamente valutata del singolo intervento, ma al complesso strutturalmente individuato che deriva dalla sovrapposizione con quello preesistente (cfr. Cons. Stato, VI, 3 marzo 2004, n. 1060; 14 maggio 2004, n. 3116).
Occorre, quindi, esternare adeguatamente l’avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo e, dall’altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, in modo da giustificare la scelta di dare prevalenza all’interesse del privato rispetto a quello tutelato in via primaria attraverso l’imposizione del vincolo (cfr. Cons.Stato, VI, 21 febbraio 2007, n. 924).
Le considerazioni sopra svolte valgono anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, per il quale l’articolo 32 della legge n. 47/1985 dispone che «il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria … è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
Invero, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 28 gennaio 1998, n. 114) ha avuto modo di chiarire che il suddetto parere ha natura e funzioni identiche alla autorizzazione paesaggistica, in quanto entrambi gli atti costituiscono il presupposto per l’assentimento del titolo che legittima la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta; con la conseguenza che anche in tale caso è esercitabile il potere ministeriale di annullamento del provvedimento.
Venendo, dunque, all’esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio e facendo applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta che l’autorità comunale non ha rispettato l’obbligo motivazionale cui era tenuta, considerato che il provvedimento autorizzativo rilasciato (n. 5130/86/10-10-6 del 29 novembre 1995) si limita al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, dando semplicemente atto che «la Commissione Edilizia in seduta dell’8-1-1995 ha espresso parere favorevole alle opere abusive realizzate»
Il provvedimento, dunque, per come correttamente evidenziato nel provvedimento di annullamento impugnato, non contiene motivazione alcuna sulle ragioni di ritenuta compatibilità paesaggistica delle opere.
E’ dunque evidente che il provvedimento statale – con adeguata motivazione incentrata sulla apoditticità della valutazione comunale - ha rilevato la sussistenza di un vizio della autorizzazione paesaggistica, effettivamente sussistente.
In tale situazione il riferimento, contenuto nella determinazione statale, alla natura e alla consistenza dell’opera (progettata o realizzata, nel caso di condono) ed alle caratteristiche del luogo non si configura propriamente come un riesame del merito, ma si afferma come evidenziazione dell’esistenza di un valore paesistico tutelato e come rilievo della necessità del giudizio di compatibilità in concreto pretermesso.
Quanto alla infondatezza del motivo di appello con la quale si assume l’effettuazione di una illegittima valutazione di merito da parte dell’autorità statale, deve, inoltre, richiamarsi l’orientamento espresso da questo Consiglio.
E’ stato, invero, evidenziato che l’unico limite che questa incontra in tema di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione.
Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera.
In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben può l’autorità statale annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare – anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato – le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati (cfr. Cons, Stato, VI, 28 ottobre 2015, n. 4925; Sez. II, 9 novembre 2015, n. 2649).
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, può affermarsi che il decreto di annullamento è sufficientemente motivato in ordine al riscontrato vizio di difetto di motivazione della autorizzazione paesaggistica, giacchè ha rilevato la predetta mancanza ed ha evidenziato la peculiarità della concreta situazione di fatto che imponeva una ben diversa valutazione degli interessi in conflitto.
Peraltro, poiché l’autorità statale ha annullato l’autorizzazione per difetto di motivazione, senza precludere l’esercizio ulteriore del potere, va condivisa l’osservazione delle appellanti, secondo cui va riattivato il procedimento volto all’esercizio del potere comunale, con una motivazione adeguata (che tenga in considerazione la concreta situazione di fatto, i valori tutelati e quanto rilevato nell’atto di annullamento già emanato) e si esprima motivatamente sugli interessi in conflitto.
L’assenza di tale precisazione nell’atto statale di annullamento non ne infirma però la validità, poiché l’autorità statale, nel caso di riscontrato vizio motivazionale, legittimamente si è limitata all’annullamento dell’autorizzazione.
Con il secondo motivo, l’appellante censura la sentenza del Tribunale Amministrativo nella parte in cui ha respinto il motivo di ricorso con il quale era stata dedotta l’illegittimità dell’atto di annullamento per incompetenza relativa, assumendosi che il provvedimento era di competenza del Ministro e non anche del Direttore Generale dell’Ufficio Centrale per i Beni Ambientali e Paesaggistici.
L’interessata evidenzia in proposito che, sulla base della normativa vigente all’atto della adozione del provvedimento impugnato, il decreto di annullamento si dovrebbe considerare un atto di competenza del Ministro e non dell’organo burocratico.
La gravata sentenza così motiva sul punto.
«Non ha pregio la censura inerente all’incompetenza del Direttore Generale, in quanto dopo il D.L.vo n. 93/29 l’attività di gestione è stata devoluta ai Dirigenti ».
Il motivo di appello è infondato, condividendosi sul punto la determinazione reiettiva del giudice di primo grado.
La Sezione, invero, aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale «a seguito dell’entrata in vigore del d.lg. n. 29 del 1993, che ha attribuito ai dirigenti la competenza su tutti gli atti gestionali già riservati agli organi politici, il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, prima di competenza del Ministro, è diventato di competenza della dirigenza ministeriale e, in particolare, del direttore generale dell’ufficio centrale per i beni ambientali. Questi , a sua volta, con provvedimento 18 dicembre 1996 (pubblicato in G.U. n. 3 del 4 gennaio 1997), nel disciplinare le forme di decentramento dei poteri in materia di tutela ambientale e paesaggistica, ha delegato ai Soprintendenti territorialmente competenti l’emanazione dei provvedimenti ex art. 82, comma 9 del d.p.r. n. 616 del 1977, relativi agli interventi che interessano il territorio di un unico Comune, fatta eccezione per quelli concernenti opere statali» (cfr. Cons. Stato, VI, 3 novembre 2000, n. 5935).
Poiché il provvedimento impugnato è stato emesso il 22 luglio 1996, esso legittimamente è stato adottato dal Direttore Generale del Ministero.
Con l’ultimo motivo, le appellanti censurano la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha disposto la loro condanna alle spese del giudizio e lamentano l’ingiustizia di tale pronuncia in quanto nessuna responsabilità potrebbe loro imputarsi in merito al difetto di motivazione della valutazione paesaggistica data dal Comune di Castel San Pietro Terme, che costituisce il motivo fondante dell’annullamento ministeriale.
Il motivo è infondato.
Il giudice di primo grado ha fatto corretta applicazione del principio della soccombenza, considerandosi che, a prescindere dalle ragioni del disposto annullamento, sono stati i privati, lesi dal provvedimento di annullamento ministeriale, ad impugnarlo infondatamente dinanzi al TAR.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, dunque, l’appello è infondato e deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado e con l’ulteriore precisazione che il Comune potrà rinnovare la valutazione di compatibilità paesaggistica, fornendo adeguata motivazione della stessa.
Al riguardo, rileva il Collegio che va però seguito il procedimento attualmente previsto dall’art. 146 del codice n. 42 del 2004 (dovendosi sul punto condividere il principio enunciato da questa Sezione con la sentenza 26 marzo 2014, n. 1472, sulla inapplicabilità dell’art. 159 del medesimo codice, dopo la perdita della sua rilevanza transitoria, il che comporta, a maggior ragione, l’inapplicabilità dell’art. 7 della legge n. 1089 del 1939, a suo tempo abrogato).
Le spese del secondo grado seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 1940 del 2011, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna gli appellanti al pagamento, in favore del Ministero per i beni culturali e ambientali, al pagamento delle spese del presente grado del giudizio che si liquidano in complessivi euro 2500, 00, oltre accessori di legge se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 marzo 2017, con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Francesco Mele, Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Francesco Mele
Luigi Maruotti
IL SEGRETARIO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2594 del 2015, proposto da:
Antonella De Caroppo, rappresentata e difesa dagli avvocati Benedetto Cimino e Gioia Maria Scipio, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, Lungotevere dei Mellini, 10;
contro
Comune di Taviano, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Mirella Esposito, con domicilio eletto presso lo studio Marco Gardin in Roma, via L. Mantegazza 24;
nei confronti di
Giuliana Maria Mele non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sezione III n. 2132/2014, resa tra le parti, concernente demolizione di opere edilizie abusive - diniego sanatoria.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Taviano;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2015 il Cons. Andrea Pannone e uditi per le parti gli avvocati Scipio e L’Abbate per delega di Esposito;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La sentenza qui impugnata riferisce, in punto di fatto, quanto segue.
La ricorrente – proprietaria del primo piano di un fabbricato di due piani (distinto in catasto al foglio 23 particelle 819 e 820) in Taviano (zona “B1 - di completamento edilizio”) con ingressi da via Vittorio Emanuele III n. 67 e da via Fiume n. 20 (realizzato dal padre negli anni ‘50 del secolo scorso), confinante sul lato est con l’adiacente immobile della controinteressata sito in via Fiume n. 22 (in origine costituito dal solo piano terra realizzato negli anni ‘30 del secolo scorso) – con il ricorso introduttivo del giudizio impugna l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 15 del 15 marzo 2012 emanata dal Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Taviano (con cui sono le sono state contestate “difformità riferite alla planimetria del progetto anno 1956 consistenti in un diverso sviluppo della scala esterna di accesso e in un aumento della superficie coperta e del volume edificato in corrispondenza dei lati ovest e nord dell’immobile, dove risultano edificati nuovi vani residenziali ed accessori e alcune superfici terrazzate con balcone su strada … nonché la realizzazione del c.d. pozzo-luce sul lato est dell’edificio. Le difformità sono riscontrate anche in relazione alle planimetrie presentate in variazione catastale presso il Catasto di Lecce nell’anno 1999. Si rileva infatti che sono stati edificati dei vani al primo piano sulla copertura anche dell’u.i. distinta al fg. 23 p.lla 1043 sub. 2 e che una porzione del cortile a piano terra risulta occupata e destinata ad ampliamento di altra unità immobiliare confinante - a piano terra - di proprietà della sig.ra De Caroppo Annita”), nella parte riferibile al predetto immobile a primo piano di sua proprietà (distinto in catasto al foglio 23 particella 819 sub. 2).
Con motivi aggiunti notificati in data 14 marzo 2013 impugna, altresì, la nota prot. n. 489 del 15 Gennaio 2013 a firma del Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Taviano recante diniego del permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 6 Giugno 2001 n. 380 e della Legge Regionale Pugliese 30 Luglio 2009, n. 14, richiesto dalla ricorrente in data 11 Giugno 2012, nonché la relazione istruttoria del Responsabile del procedimento datata 14 Gennaio 2013, la valutazione sulla conformità urbanistica dell’intervento resa dal Responsabile del procedimento il 18 Ottobre 2012 e la nota prot. n. 12853 del 19 Ottobre 2012 di comunicazione dei motivi ostativi al rilascio della sanatoria.
2. La sentenza ha dichiarato il ricorso in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse e per la restante parte (motivi aggiunti) lo ha rigettato.
In primo luogo, il Tribunale rileva che l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione n. 15/2012, proposta dalla ricorrente con il ricorso introduttivo del presente giudizio, è divenuta improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
In proposito, è appena il caso di rammentare che l’insegnamento giurisprudenziale consolidato ha condivisibilmente chiarito che l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse; il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 6 Giugno 2001 n. 380, comporta infatti la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio, oggetto dell’impugnativa (ex plurimis: T.A.R. Campania Salerno, I Sezione, 15.11.2013, n. 2266).
Chiarito ciò, il Tribunale ritiene, invece, infondata nel merito l’impugnazione interposta dalla ricorrente con i motivi aggiunti notificati in data 14 marzo 2013.
In proposito, è necessario, innanzitutto, rammentare – in punto di fatto – che l’impugnato diniego opposto dal Comune di Taviano alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria presentata dalla ricorrente (ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e della Legge Regionale Pugliese 30 Luglio 2009 n. 14) in data 11 giugno 2012 si fonda sulla seguente motivazione: “Non può riconoscersi, sulla base della documentazione tecnica ed amministrativa presentata ed obiettivamente riscontrabile, che l’edificio sia stato realizzato, nell’attuale consistenza, in data anteriore all’entrata in vigore della c.d. Legge-Ponte. Anche nell’ipotesi di considerare la c.d. doppia conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, risulta impedito l’accertamento di conformità, sia per la mancata dimostrazione dell’epoca di realizzazione degli abusi e sia per il mancato rispetto dei principali parametri urbanistico-tecnici attualmente in vigore sull’area (superficie copribile e volume edificabile), per cui si conferma l’avvenuta esecuzione di opere e di trasformazioni edilizie in assenza di titolo abilitativo e la non conformità dell’edificio alla vigente normativa tecnica di attuazione urbanistica”.
3. Propone ricorso in appello l’interessata evidenziando preliminarmente che: “Questione cruciale è il periodo di realizzazione dei presunti abusi: questa Difesa ha dimostrato, sulla base di indubitabili elementi tecnici e documentali, che essi risalgono agli anni cinquanta del secolo trascorso; senza alcuna motivazione, tuttavia, il TAR è caduto nello stesso errore dell’Amministrazione, omettendo di vagliare il materiale probatorio in atti ed omettendo, se del caso, di disporre una verificazione.
Ma vi è di più: con coeva sentenza, il Tar Puglia ha annullato la medesima ordinanza di demolizione oggi in discussione, per la parte riferibile alla sorella dell’appellante, sig.ra Annita De Caroppo. Ebbene: non solo le argomentazioni tecniche e giuridiche a sostegno dei due ricorsi erano identiche, ma addirittura un medesimo abuso - un pozzo luce, che si estende per tutta l’altezza dell’immobile - era stato contestato ad entrambe le sorelle De Caroppo. Si è in presenza di un vero errore revocatorio per conflitto di giudicati: con tutta evidenza, la medesima opera non può essere legittima per un proprietario e abusiva per un altro”.
“I tre giudizi incardinati dinnanzi al TAR dalla sig.ra Antonella De Caroppo [odierna appellante] e dalla sorella Annita (r.g. n. 1733/2011; n. 610/2012; n. 833/2012) pur non formalmente riuniti, erano oggetto di trattazione congiunta. In nessuno di essi si costituiva il Comune; mentre spiegava diffusamente le proprie difese la controinteressata Mele.
Dopo alcuni rinvii, l’udienza di discussione nel merito veniva fissata per il giorno 16 luglio 2014 e i giudizi venivano decisi con tre coeve sentenze del 5 agosto 2014, nn. 2124, 2127 e 2132.
Come chiarito, con le prime due, il Tribunale accoglieva in toto le istanze e le prospettazioni di parte De Caroppo; e tuttavia, benché l’impianto probatorio e logico argomentativo si fondasse sulle medesime basi, il Tribunale rigettava la domanda di annullamento dell’ordinanza di demolizione relativa al piano primo dell’immobile”.
4. L’appellante deduce, per quel che qui rileva:
“Erroneità della sentenza impugnata. Omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Omessa valutazione di prove decisive. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà della motivazione e per difetto d’istruttoria del provvedimento impugnato in prime cure. Violazione dell’art. 6, co. 1, lett. b), l.n. 241 del 1990 e del principio inquisitorio”.
Un primo decisivo profilo discusso nel giudizio di primo grado è stato il periodo di realizzazione dell’immobile De Caroppo.
È bene muovere dall’iter logico seguito dall’Ufficio tecnico del Comune di Taviano, risultante dal parere del 14 gennaio 2013 del responsabile del procedimento: “Le argomentate contestazioni presentate dal Legale risultano supportate logicamente e probabilmente le ricostruzioni storiche potranno anche essere fatte valere con testimonianze”. Tuttavia, queste prove non possono trovare ingresso “in sede di istruttoria tecnica in quanto si conferma che l’Ufficio istruttore deve basare la propria attività su circostanze obiettivamente riscontrabili documentativamente”. Prosegue l’Ufficio: “la rigorosa dimostrazione dello status quo ante spetta al titolare di diritti reali sull’immobile che a parere dell’Ufficio istruttore, non l’ha fornita nei termini che occorrono”, ovverosia “attraverso documenti pubblici ed elaborati grafici catastali” (v. la precedente valutazione sulla conformità resa dal responsabile del procedimento il 18.10.2012).
Il descritto presupposto è fallace: in materia vigono principi opposti, sia circa i mezzi di prova ammissibili, sia circa la pregnanza dell’onere della prova.
Anzitutto, l’epoca di costruzione di un immobile può essere fornita sia per tabulas (testamenti e atti pubblici di trasferimento della proprietà; estratti catastali; licenze di agibilità, ecc.), sia tramite prove tecniche (saggi e ispezioni in situ, che consentano una datazione sulla base delle tecniche costruttive utilizzate) e persino tramite testimonianze giurate o elementi indiziari o presuntivi. È questo un principio generale dell’attività amministrativa: “il principio inquisitorio consente all’autorità amministrativa di avvalersi di propria iniziativa, di ogni mezzo probatorio che ritenga utile” (G. Pericu, Attività amministrativa, in L. Mazarolli et al., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, tomo II, 1296); ora codificato dall’art. 6, co. 1, lett. b), l.n. 241 del 1990, a mente del quale il responsabile del procedimento “accerta di ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari [...] In particolare [...] può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni”.
Tale regola generale vale con speciale riguardo alle pratiche edilizie, laddove si rinviene di frequente la necessità di dare prova di risalenti fatti storici, quali, in particolare, l’epoca di costruzione dei manufatti. La regola che qui si afferma non è solo quello della libertà della prova, ma addirittura, della sufficienza del “principio di prova” (cosi, con giurisprudenza unanime: Tar Sicilia, Palermo, II, 18.V.2012, n. 1002; Tar Campania Salerno, Il, 7.V.2012, n. 828; Tar Pugile, Lecce, III, 7.IV.2011, n. 621; Cons. Stato, V, 13.11.1998, n. 157).
Ebbene, contrariamente a quanto dedotto dall’Ufficio e ritenuto dal TAR, la sig.ra De Caroppo aveva ampiamente assolto al proprio onere, tramite quelle “argomentate contestazioni” addotte nelle memorie difensive presentate nel procedimento amministrativo (e poi in giudizio) che, tuttavia, si è inteso ignorare. Come meglio si dettaglierà, l’odierna appellante aveva offerto una panoplia di elementi valutativi, utilizzati in modo coordinato: estratti catastali: analisi delle tecniche costruttive e dei materiali utilizzati; ragioni strutturali; prove logiche circa la necessaria contestualità di alcuni interventi, ecc.
Non solo: per tutti i profili non documentali, la sig.ra De Caroppo non ha preteso che l’Ufficio si basasse esclusivamente sulle allegazioni di parte. Ha richiesto insistentemente ed espressamente (v. memoria procedimentale del 31 ottobre 2012) di procedere a verifiche in contraddittorio, anche tramite saggi sui materiali. L’Amministrazione ha sempre rigettato, senza nemmeno darne conto, tali richieste istruttorie. Ciò è tanto più grave se si considera che, per stessa ammissione dell’Ufficio, non si trattava certo di istanze defatigatorie; tutt’al contrario, le ricostruzioni storiche presentate erano “sopportate logicamente”.
È del tutto evidente, dunque, che l’istruttoria fu gravemente lacunosa e l’azione amministrativa del tutto contraddittoria: il diniego di sanatoria avrebbe dovuto essere annullato, quantomeno per vizio della motivazione e sia pure lasciando impregiudicata la reiterazione del potere amministrativo all’esito di più attente e complete verifiche (all’esito delle quali non potrà che accertarsi l’evidente e cioè che l’immobile di causa risale agli anni cinquanta del secolo scorso).
5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia strettamente rilevante per la decisione del ricorso in appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse) non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia », non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, sez. VI, 8 aprile 2016, n. 1393).
“I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto” (Consiglio di Stato, VI, 6 maggio 2014, n. 2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di potere per difetto di istruttoria.
È condivisibile quanto sostenuto dall’appellante circa l’ampiezza dei mezzi di prova presentabili e valutabili: essi non possono essere limitati a mere evenienze documentali ma possono utilizzare tutti gli strumenti messi a disposizione dalle conoscenze scientifiche accettate. Va da sé che tutto ciò che non sia documentalmente provato dovrà essere valutato con rigore e coerenza.
7. Attesa la natura della controversia le spese del giudizio possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati in primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere, Estensore
Vincenzo Lopilato, Consigliere
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Andrea Pannone
Luciano Barra Caracciolo
IL SEGRETARIO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Presidente
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
Dott. COSENTINO Antonello - Consigliere
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere
Dott. SCALISI Antonino - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), e (OMISSIS), rappresentati e difesi, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto nel suo studio in (OMISSIS);
- ricorrenti -
contro
(OMISSIS), rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto nel suo studio in (OMISSIS);
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Catania n. 994 in data 16 maggio 2013;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 24 gennaio 2017 dal Consigliere Alberto Giusti;
udito l'Avvocato (OMISSIS), per delega dell'Avvocato (OMISSIS);
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. - Con atto di citazione notificato il 23 settembre 2002, (OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catania, (OMISSIS).
Premesso di essere condomini dello stabile sito in (OMISSIS), gli attori deducevano: che lo (OMISSIS) aveva provveduto alla trasformazione in autorimessa di un vano di sua proprieta', sito al piano terra dell'edificio condominiale; che tale innovazione era stata eseguita mediante l'allargamento di una finestra prospiciente la via (OMISSIS), trasformata in porta carraia di accesso al garage; che le opere eseguite avevano determinato il parziale abbattimento del muro condominiale, pregiudicando la stabilita' e la sicurezza dell'edificio e ledendo il decoro architettonico dello stabile. Lamentavano, inoltre, l'illegittima appropriazione, da parte dello (OMISSIS), di parte del muro perimetrale.
Esponendo di aver promosso ricorso ex articolo 1172 c.c., accolto in sede di reclamo, chiedevano la condanna del convenuto a ripristinare la situazione preesistente, nonche' al risarcimento dei danni subiti.
Lo (OMISSIS) si costituiva in giudizio contestando le domande degli attori, di cui chiedeva il rigetto.
Con sentenza del 19 ottobre 2009 il Tribunale di Catania, ritenuto che le opere eseguite avevano cagionato la lesione del decoro architettonico dell'edificio condominiale, dichiarava lo (OMISSIS) tenuto al ripristino dell'originario assetto e del decoro architettonico della facciata dell'edificio anteriore a tutti i lavori e le opere dallo stesso convenuto realizzate, mentre rigettava la domanda risarcitoria; condannava il convenuto al rimborso delle spese processuali.
2. - Avverso detta sentenza proponeva appello lo (OMISSIS).
Si costituivano (OMISSIS) e (OMISSIS), resistendo al gravame.
Con sentenza depositata il 16 maggio 2013, la Corte d'appello di Catania, in accoglimento dell'appello proposto dallo (OMISSIS), in parziale riforma della sentenza impugnata, ha rigettato la domanda formulata dai (OMISSIS) di condanna del convenuto ad eliminare le opere abusivamente realizzate obbligandolo a ripristinare la situazione preesistente all'effettuazione delle opere stesse, e li ha condannati a rifondere allo (OMISSIS) le spese di entrambi i gradi del giudizio.
La Corte territoriale ha rilevato che, pur ampliata l'originaria finestra (della larghezza di ml. 1,80) in passo carraio (della larghezza di ml. 2,80), leggermente piu' ampio rispetto al portone recante civico 193, e pur apparentemente modificata la sequenza "finestra-portone-finestra", non sussiste alcuna significativa alterazione del decoro architettonico. La Corte territoriale ha evidenziato che la nuova apertura e' stata munita di una porta con caratteristiche del tutto simili al vicino portone (con bugne, riquadri e colore del tutto simili) che, all'evidenza, richiama sotto il profilo estetico; che nessun deprezzamento puo' ritenersi sussistente, con riferimento all'intero fabbricato e alle singole unita' immobiliari, avuto riguardo all'aspetto architettonico complessivo dello stabile (edificato nel 1947, e dotato di non particolare pregio) e al contesto nel quale esso e' inserito (presenza di altri palazzi costruiti in aderenza, secondo lo stile di quello oggetto di causa, sede stradale di ordinarie dimensioni, zona estremamente appetibile per la strategica posizione centrale nella citta' di Catania), sicche' non e' dato notare in maniera significativa l'alterazione eseguita, e comunque essa non provoca un risultato esteticamente sgradevole, apparendo anzi immutato lo stile architettonico della facciata.
Infine, la Corte di Catania ha rilevato come tale alterazione si accompagni ad una utilita' estremamente rilevante per lo (OMISSIS), costituita dalla possibilita' di usufruire di un garage in una zona trafficatissima, caratterizzata notoriamente da enormi difficolta' di parcheggio.
3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello hanno proposto ricorso (OMISSIS) e (OMISSIS), sulla base di tre motivi.
(OMISSIS) ha resistito con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato una memoria illustrativa in prossimita' dell'udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione degli articoli 1102, 1117 e 1120 c.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonche' dell'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e' stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ad avviso dei ricorrenti, lo (OMISSIS), appropriandosi illegittimamente del muro perimetrale di natura portante, di proprieta' comune ex articolo 1117 c.c., e che era stato parzialmente abbattuto allo scopo di eseguire la trasformazione dell'originaria finestra in un portone, avrebbe agito senza alcun rispetto delle regole di cui all'articolo 1120 c.c., attesa la conclamata illiceita' della condotta posta in essere. Si deduce, inoltre, un vizio di motivazione, avendo la Corte d'appello ignorato la circostanza che la demolizione di una parte del muro portante dell'edificio era stata realizzata con pregiudizio alla stabilita' e alla sicurezza dell'edificio.
1.1. - Il motivo e' infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. 2, 25 settembre 1991, n. 10008; Cass., Sez. 2, 26 gennaio 1987, n. 703; Cass., Sez. 2, 27 ottobre 2003, n. 16097; Cass., Sez. 6-2, 14 novembre 2014, n. 24295), in tema di condominio, il principio della comproprieta' dell'intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilita' aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all'apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprieta' esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell'esercizio dell'uso del muro - ovvero la facolta' di utilizzarlo in modo e misura analoghi - e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilita' ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.
Si e' anche precisato (Cass., Sez. 2, 29 aprile 1994, n. 4155; Cass., Sez. 2, 26 marzo 2002, n. 4314) che l'apertura di varchi e l'installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell'edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all'unita' immobiliare di sua proprieta' esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilita' di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'articolo 1102 c.c., comma 1, e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non gia' alla necessita' di ovviare ad una interclusione dell'unita' immobiliare al cui servizio il detto accesso e' stato creato, ma all'intento di conseguire una piu' comoda fruizione di tale unita' immobiliare da parte del suo proprietario. Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unita' immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l'esercizio di tale facolta', disciplinata dagli articoli 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilita' e il decoro architettonico del fabbricato.
A tale principio si e' correttamente attenuta la Corte di merito.
Invero, la Corte di Catania - nel giungere alla conclusione che l'allargamento dell'apertura da parte dello (OMISSIS) al fine di trasformare la finestra in accesso carraio ha semplicemente comportato un uso piu' intenso della cosa comune, come tale consentito dall'articolo 1102 c.c., senza con questo alterare il rapporto di equilibrio con gli altri comproprietari - ha per un verso rilevato che lo (OMISSIS) era l'unico fra i condomini a poter usufruire, per le proprie esigenze, del varco in questione, siccome proprietario esclusivo dell'unita' immobiliare comunicante con l'esterno; per l'altro ha sottolineato che il realizzato allargamento ha lasciato immutato lo stile architettonico della facciata, non comportando alcuna significativa alterazione del relativo decoro, e cio' considerando in concreto le linee e le strutture che connotano il fabbricato stesso.
La Corte territoriale ha compiuto un congruo accertamento di fatto nel quadro dei principi dettati da questa Corte regolatrice.
I ricorrenti finiscono con il sollecitare un diverso esame delle risultanze di causa e un differente apprezzamento di merito, il che fuoriesce dai limiti del sindacato devoluto alla Corte di cassazione.
Essi muovono dal presupposto che nella specie vi sia stato "l'abbattimento di un muro portante" dell'edificio, ma non considerano che nella specie si e' avuta soltanto una riduzione del "maschio murario" (pilatro) in corrispondenza dell'allargamento della precedente apertura.
E prospettano l'esistenza di un pregiudizio attuale alla stabilita' e alla sicurezza del fabbricato, ma non tengono conto della circostanza che gia' il Tribunale di Catania, definendo il primo grado di giudizio con la sentenza n. 4671 del 2009, ha affermato che il pregiudizio sismico - pur inizialmente sussistente per effetto dell'intervento effettuato dallo (OMISSIS) - era stato eliminato a seguito dell'effettuazione, da parte dello stesso convenuto, delle opere disposte in sede di reclamo cautelare; ne' dal testo del ricorso si ricava come la questione dell'attualita' del rischio per la stabilita' del fabbricato (pur dopo che lo (OMISSIS) aveva realizzato, ottemperando all'ordinanza resa in rese di reclamo cautelare, tutti gli interventi diretti all'eliminazione del pregiudizio sismico) sia stata riproposta dai (OMISSIS) in appello.
2. - Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli articoli 1102, 1120 e 2909 c.c., articoli 324 e 342, nel testo applicabile ratione temporis, articoli 346 e 112 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Secondo i ricorrenti, sarebbe rimasta priva di censura la decisione del Tribunale avente a oggetto l'accertamento che l'intervento edilizio realizzato dallo (OMISSIS), attraverso le opere di demolizione e di trasformazione, aveva causato un pregiudizio grave e prossimo alla sicurezza e stabilita' del fabbricato, rimosso dal medesimo (OMISSIS) soltanto in attuazione dell'ordine emesso dal medesimo Tribunale in sede cautelare. Si sarebbe in questo modo formato il giudicato quanto alla fondatezza dell'azione nunciatoria proposta dai fratelli (OMISSIS), riguardante il pericolo di danno grave per la stabilita' dell'edificio. Al giudicato conseguirebbe l'irretrattabilita' delle pronunce di condanna a ripristinare la stabilita' e la sicurezza del fabbricato emesse dal Collegio in sede cautelare e confermate dal Tribunale in sede di decisione sul merito.
2.1. - Il motivo e' infondato, per l'assorbente ragione che, nel giudizio di merito promosso una volta esaurito il procedimento cautelare, il Tribunale di Catania ha escluso il denunciato pregiudizio attuale alla stabilita' dell'edificio, avendo dato atto della eliminazione della situazione di pericolo a seguito della effettuazione delle opere disposte in sede cautelare. Va ribadito che dal testo del ricorso per cassazione non risulta come - una volta che lo (OMISSIS) ha provveduto, mediante l'esecuzione degli opportuni interventi, a rimuovere l'originaria situazione di non conformita' alle prescrizioni della normativa antisismica - la questione del pregiudizio attuale alla stabilita' sia stata riproposta in appello dai (OMISSIS).
3. - Con il terzo motivo di ricorso si contesta la violazione dell'articolo 2909 c.c., articoli 324, 91 e 92 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e dell'articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell'articolo 118 disp. att. c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Secondo quanto dedotto dai ricorrenti, ove la Corte d'appello avesse fatto corretta applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., e delle disposizioni sul giudicato, i fratelli (OMISSIS) avrebbero comunque dovuto beneficiare della rifusione delle spese del giudizio o della loro compensazione. L'incongruenza delle argomentazioni poste a fondamento della decisione sulle spese avrebbe altresi' determinato un vizio di sostanziale mancanza di motivazione, essendo quella fornita talmente incomprensibile da non poter essere in alcun modo riconosciuta come giustificazione della pronuncia.
3.1. - Il motivo - scrutinabile nel merito, in quanto formulato nel rispetto delle prescrizioni dettate dall'articolo 366 c.p.c. - e' fondata, nei termini di seguito precisati.
La Corte d'appello ha condannato i (OMISSIS) al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, comprese quella per la fase cautelare. A tale esito la Corte di Catania e' giunta sul rilievo che "la riforma della sentenza di primo grado impone... una diversa regolamentazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio, in base al principio della soccombenza".
Questa statuizione sulle spese non da' conto dell'esito complessivo della controversia.
Invero, occorre sottolineare che il giudizio di merito a cognizione piena e' stato iniziato dai (OMISSIS) a seguito dell'ordinanza del Tribunale di Catania in data 20 giugno 2002, con la quale e' stata accolta, in sede cautelare, la denuncia di danno temuto, riconoscendosi la compiuta sussistenza di quella situazione di pericolo grave e prossimo che legittima l'erogazione della chiesta tutela cautelare nunciatoria ex articolo 1172 c.c., e impartendosi l'ordine, rivolto allo (OMISSIS), di eseguire tutte le opere indicate dal c.t.u. ing. (OMISSIS) nella relazione depositata il 7 maggio 2002, dirette ad ovviare alla situazione di pericolo da lui creata.
Nel giudizio di merito introdotto in esito alla disposta tutela cautelare, il Tribunale di Catania, definendo il giudizio di primo grado con la sentenza n. 4671 del 2009, ha confermato le valutazioni espresse dal Collegio cautelare "in ordine alla sussistenza del pregiudizio sismico alla stregua dell'intervento effettuato dallo (OMISSIS)".
E' esatto che il Tribunale di Catania non ha ordinato la riduzione in pristino per il denunciato pregiudizio alla stabilita' del fabbricato, ma solo perche', nel corso del giudizio, "giusta dichiarazione resa dal c.t.u. incaricato della vigilanza sulla esecuzione delle opere con relazione depositata in data 8 luglio 2003", e' sopraggiunta la rimozione della situazione di pregiudizio sismico mediante l'eliminazione, attraverso l'esecuzione degli impartiti interventi di consolidamento, della originaria situazione contra ius realizzata dallo (OMISSIS).
Ora, gli attori (OMISSIS) sono senz'altro soccombenti sulla domanda di riduzione in pristino per l'alterazione del decoro architettonico, come pure sull'accessoria domanda di risarcimento del danno, ma non lo sono in ordine alla denuncia di situazione di pericolo creato dall'opera, avendo il Tribunale, nell'ordinario giudizio di merito successivo alla fase cautelare, effettivamente accertato la sussistenza del pregiudizio sismico alla stregua dell'intervento effettuato dallo (OMISSIS), e cosi' confermato l'individuazione dell'intervento idoneo ad eliminarlo e proceduto alla definitiva identificazione del soggetto (lo (OMISSIS)) onerato dell'intervento riparatore.
In questo quadro, la soccombenza - misurata ed apprezzata dalla Corte d'appello esclusivamente sul rigetto delle altre pretese avanzate - non da' conto degli esiti complessivi della controversia, e quindi non si sottrae alla denuncia articolata con il motivo.
4. - Il primo ed il secondo motivo del ricorso sono rigettati, mentre il terzo e' accolto, nei sensi di cui in motivazione.
La sentenza impugnata e' cassata limitatamente al capo relativo alle spese.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo' essere decisa nel merito con la compensazione tra le parti delle spese dell'intero giudizio di merito, inclusa la fase cautelare, sussistendo giustificati motivi in tal senso in relazione all'esito complessivo e agli sviluppi della controversia.
Anche le spese del giudizio di cassazione devono essere compensate, essendo il ricorso accolto solo in parte.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo motivo, nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata limitatamente al capo relativo alle spese e, decidendo nel merito, dichiara interamente compensate tra le parti le spese dei gradi di merito, compresa la fase cautelare; dichiara altresi' compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore - Primo Presidente f.f.
Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente di Sezione
Dott. DIDONE Antonio - Presidente di Sezione
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente di Sezione
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere
Dott. CRISTIANO Magda - Consigliere
Dott. CHINDEMI Domenico - Consigliere
Dott. MANNA Felice - rel. Consigliere
Dott. BERRINO Umberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4435/2013 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende, per procura speciale del notaio dott. (OMISSIS) di Pesaro, rep. (OMISSIS) del 17/02/2016, in atti;
- ricorrenti -
contro
(OMISSIS) S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), per delega in calce al controricorso;
- controricorrente -
e contro
(OMISSIS) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, (OMISSIS) S.R.L.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 463/2012 della CORTE D'APPELLO di ANCONA, depositata il 12/07/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2017 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;
uditi gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (OMISSIS), convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la societa' venditrice (OMISSIS) s.r.l. e la (OMISSIS) s.n.c., che su incarico di quest'ultima aveva eseguito sull'edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle societa' convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione.
Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la societa' che aveva eseguito gli intonaci, la (OMISSIS) s.r.l., per esserne tenute indenni.
Nella contumacia della societa' chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell'opera, accoglieva la domanda e condannava le societa' convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilita' per danni ex articolo 1669 c.c..
Impugnata dalla (OMISSIS) e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d'appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell'applicazione dell'articolo 1669 c.c., la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilita' dell'appaltatore. E poiche' nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d'uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un'immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l'inapplicabilita' della norma anzi detta.
La cassazione di questa sentenza e' chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo.
Vi resiste con controricorso la (OMISSIS) s.n.c..
La (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione e la (OMISSIS) s.r.l. non hanno svolto attivita' difensiva.
La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilita' all'articolo 1669 c.c., anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l'ha assegnata a queste Sezioni unite.
Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con l'unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione dell'articolo 1669 c.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5". Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell'articolo 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull'entita' dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonche' sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all'ipotesi di cui all'articolo 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma e' applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata.
2. - Sotto quest'ultimo profilo, quello dell'ambito oggettivo coperto dall'articolo 1669 c.c., l'ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all'interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l'una o l'altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l'applicabilita' dell'articolo 1669 c.c., anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di la' delle possibili peculiarita' "fattuali" delle singole situazioni esaminate.
2.1. - Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l'applicabilita' dell'articolo 1669 c.c., ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell'immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che e' essa stessa una "nuova costruzione", prevale l'opinione dell'estensibilita' della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo - modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Cio' sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l'intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall'importanza in se' della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest'ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch'esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l'applicazione dell'articolo 1669 c.c., nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema e' lo stesso che si presenta allorche' rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell'originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l'ipotesi che l'immobile rovini "in parte". Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimita' costituzionale, considerato che gli articoli 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilita' dell'appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l'articolo 1669 c.c., restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell'articolo 3 Cost., ad applicare l'articolo 1667 c.c., ancorche' l'opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo.
Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli articoli 1667 e 1668 c.c., ravvisa nell'articolo 1669 c.c., una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L'articolo 1669 c.c., riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione).
3. - La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- - ragioni che seguono.
3.1. - La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d'impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d'un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l'articolo 1669 c.c., delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, pero', le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del'articolo 812 c.c.. A tale conclusione e' pervenuta attraverso l'interpretazione letterale della norma, laddove questa "raccorda il termine "opera" a quello di "edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata", per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, cosi' significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilita' prevista in capo all'appaltatore". La conseguenza, conclude, e' che ove non ricorra la costruzione d'un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un'opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non e' applicabile l'articolo 1669 c.c., ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex articolo 1667 c.c.. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del c.c. del 1865, sotto l'articolo 1639 (si tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell'escludere l'applicabilita' della norma alla copertura con asfalto d'un lastrico solare, si limito', in realta', ad affermare unicamente che la norma "ha, come e' comune insegnamento, carattere eccezionale, e non puo' percio' essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d'altra opera notabile": n.d.r.).
3.1.1. - In senso puramente adesivo e' la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi.
A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d'appello, ricondotta la fattispecie all'articolo 1669 c.c., aveva escluso la responsabilita' dell'appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, ne' che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Sicche', in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall'appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 e' frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell'ambito della tesi negativa.
3.2. - Di segno opposto la sentenza piu' recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell'articolo 1669 c.c., anche l'autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorche' queste incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalita' globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente).
Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all'avviso espresso, detta sentenza ravvisa una "diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali", piu' che un "contrasto sincrono di giurisprudenza". Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, "perche' non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall'altro. L'opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben puo' estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilita', ha ad oggetto non gia' l'edificio in se' considerato, bensi' l'opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio". Ha osservato, inoltre, che "l'etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben puo' riferirsi alle opere successive realizzate sull'edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell'intervento costruttivo". Pertanto, anche "gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell'articolo 1669 c.c., allorche' le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalita' globale dell'immobile stesso". Per contro, prosegue la sentenza, "nessun valore puo' essere attribuito con riguardo alla responsabilita' di cui all'articolo 1669 c.c., alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l'integrale responsabilita' dell'appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi della L. n. 457 del 1978, articolo 31".
3.3. - Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell'un senso piuttosto che nell'altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perche' dedotta dalla ricorrente venditrice - (ri)costruttrice, la differenza tra l'imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell'articolo 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perche' la pronuncia impugnata faceva riferimento all'inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilita', affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell'articolo 1669 c.c., in relazione solo a tali ultimi lavori.
4. - Queste Sezioni unite aderiscono all'orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d'interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.
4.1. - In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere piu' limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L'attenzione va, pero', soffermata principalmente sull'ipotesi dei "gravi difetti", sia perche' confinaria rispetto al regime ordinario degli articoli 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i "gravi difetti" assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno piu' chiaramente di seguito.
4.2. - Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si e' occupata dell'articolo 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l'applicabilita' anche in riferimento ad opere limitate. Ed e' pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessita' logica di un'edificazione ab imo o di una costruzione ex novo.
Si e' ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell'opera, rilevanti ai fini dell'articolo 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purche' tali da compromettere la funzionalita' globale dell'opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi della L. n. 457 del 1978, articolo 31, e cioe' con "opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" o con "opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti" (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unita' immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilita' di godimento dell'immobile, in relazione all'utilita' cui l'opera e' destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69).
Esemplificando, sono stati inquadrati nell'ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d'acqua, umidita' nelle murature e in generale problemi rilevanti d'impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l'inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l'inadeguatezza recettiva d'una fossa biologica (n. 13106/95); l'impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell'edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78).
Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettivita', un dato di fatto.
Nell'economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell'immobile secondo la sua propria destinazione, e' del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall'edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell'operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perche' non preordinata al (ne' dipendente dal) rispetto dell'una o dell'altra opzione esegetica in esame. Spostando l'attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull'incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall'angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessita' propria che si tratti della prima realizzazione dell'immobile, essendo ben possibile che l'opus oggetto dell'appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l'opera appaltata consista in un intervento di piu' ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l'articolo 1669 c.c., sia ugualmente applicabile.
In conclusione, considerare anche gli elementi "secondari" ha significato distogliere il focus dal momento "fondativo" dell'opera per direzionarlo sui "gravi difetti" di essa; per desumere i quali e' stato necessario indagare altro, vale a dire l'aspetto funzionale del prodotto conseguito.
5. - Come la previsione dei "gravi difetti" dell'opera sia il risultato d'un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma.
Derivata dall'articolo 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che "Si l'edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans"), essa cosi' recitava sotto l'articolo 1639 c.c. del 1865: "Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l'uno o l'altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l'architetto e l'imprenditore ne sono responsabili". Rispetto all'ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioe' le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma - si noti - aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata ("...l'uno o l'altra..."), cioe' l'edificio, cui appunto aveva aggiunto "altra opera notabile".
Un ulteriore e consapevole passo in avanti e' stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore e' responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purche' sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): "Innovando poi al codice del 1865 si e' creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell'opera o di evidente pericolo di rovina, ma si e' estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l'opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilita' della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi e' dubbio che la giurisprudenza fara' un'applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilita' dell'appaltatore". (Il riferimento alla riconoscibilita' dei gravi difetti al momento del collaudo e', ad evidenza, un fuor d'opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex articolo 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo).
Come si e' visto, pero', la postulata eccezionalita' dell'articolo 1669 c.c., non e' valsa ad arginarne l'applicazione. Chiamata a dotare il sintagma "gravi difetti" di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l'unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti.
5.1. - Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 e' evidente per due ragioni. La prima, d'ordine logico, e' che la nozione di "gravi difetti" per la sua ampiezza e' omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l'argomento e' di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l'edificio o altra opera notabile ("l'uno o l'altra"), nella frase che vi corrisponde nell'articolo 1669 c.c., il soggetto diviene "l'opera", nozione che rimanda al risultato cui e' tenuto l'appaltatore (articolo 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.
Ben si comprende, allora, che nell'ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell'articolo 1669 c.c., l'aggiunta dei "gravi difetti" ha comportato per trascinamento l'estensione dell'area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l'inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne e' seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l'interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che e' andata oltre l'originaria visione dell'articolo 1669 c.c., come norma di protezione dell'incolumita' pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l'immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione.
Completano e confermano la validita' di tale esito ermeneutico, l'irrazionalita' (non conforme ad un'interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l'edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l'assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioe' ammassare insieme).
6. - Cosi' ricomposta (la storia e) l'esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l'interpretazione restrittiva dell'articolo 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l'opera alla "costruzione" e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilita' aggravata dell'appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale.
Si noti che nel testo della norma il sostantivo "costruzione" rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per "attivita' costruttiva"; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d'intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l'opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di "costruzione" quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l'opera puo' rovinare per difetto suo proprio.
Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all'interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un'opera; salvo convenire che esso e' quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, cosi' confermandosi che quest'ultimo sostantivo allude, appunto, all'attivita' dell'appaltatore.
Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben piu' logico un diverso incipit della norma (e cioe', "Quando si tratta (della costruzione) di edifici..."); e b) il termine "costruzione" risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall'articolo 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioe' da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie).
Ancora. Incentrando l'interpretazione dell'articolo 1669 c.c., sul concetto di "costruzione" quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione cosi' come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo li' dove afferma (cosa in se' condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale e' costruzione nuova ed autonoma rispetto all'edificio sopraelevato. Ma e' una tematica del tutto estranea, quella dell'articolo 873 c.c. e ss., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze e' costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09).
6.1. - Non meno controvertibile l'altro argomento - la specialita' o l'eccezionalita' della norma - utilizzato dall'interpretazione restrittiva dell'articolo 1669 c.c., per escluderne l'applicazione analogica.
In disparte il fatto che (i) solo di specialita' potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilita' aggravata prevista da detta disposizione e' speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell'articolo 1668 c.c., comma 1; che (ii) tale specialita' si e' gia' attenuata fortemente allorche' la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all'azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all'eliminazione dei difetti dell'opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui e' tenuto l'appaltatore (per l'affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le piu' risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l'analogia serve a disciplinare cio' che non e' positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto cio' a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l'articolo 1669 c.c., includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialita' della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto.
7. - Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilita' ex articolo 1669 c.c. - con carattere di specialita' rispetto alla previsione generale dell'articolo 2043 c.c. - costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell'ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d'appalto). Tutt'altro che monolitica, invece, e' al riguardo la dottrina.
Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l'applicazione dell'articolo 1669 c.c., alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilita'; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell'incolumita' personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch'essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l'impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Cio' allo scopo di riconoscere l'azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa gia' in allora, con lo sviluppo delle attivita' edilizie, l'unificazione delle due figure.
7.1. - Ai limitati fini che qui rilevano puo' solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell'articolo 1669 c.c., dall'incolumita' dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un'ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a cio', va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l'esperienza dell'appalto pubblico; l'espresso riconoscimento dell'azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilita' extracontrattuale ex articolo 1669 c.c.; i piu' recenti approdi della dottrina sull'efficacia ultra partes del contratto; e - da ultima, ma non ultima - la possibilita' che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (articolo 1372 cpv. c.c.). Tutto cio' rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilita' di cui all'articolo 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non e' questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l'originaria centralita' che aveva nell'interpretazione della norma.
8. - Per le considerazioni svolte l'unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterra' al seguente principio di diritto: "l'articolo 1669 c.c., e' applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo".
9. - Al giudice di rinvio e' rimessa, ai sensi dell'articolo 385 c.p.c., comma 3, anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Ancona, che provvedera' anche sulle spese di cassazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6201 del 2000, proposto da:
Cristini Claudio, Camilli Daniela, rappresentati e difesi dall'Avvocato Oreste Pascucci, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Ottaviano, 66;
contro
Comune di Roma, ora Roma Capitale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Angela Raimondo, domiciliata presso l’Avvocatura Comunale in Roma, via Tempio di Giove, 21;
per l'annullamento
della determinazione dirigenziale n. 276 del 7 febbraio 2000, recante la trascrizione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate in Roma, via Fontana Rotta n. 40 e dell’area di sedime;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Roma;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2017 la dott.ssa Elena Stanizzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Considerato che gli odierni ricorrenti impugnano la determinazione dirigenziale – meglio indicata in epigrafe nei suoi estremi – con cui è stata disposta la trascrizione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate in Roma, via Fontana Rotta n. 40 e dell’area di sedime stante l’inottemperanza all’ordine di demolizione n. 2083 del 9 settembre 1999;
Considerato che avverso tale ordine di demolizione è stato proposto ricorso, iscritto al N. 18297/1999, il quale è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse con sentenza n. 10613/2014 stante l’intervenuta presentazione, da parte dei ricorrenti, dell’istanza di condono successivamente all’adozione del gravato provvedimento di demolizione, nella considerazione che in presenza della proposizione di istanza di condono il provvedimento repressivo perde efficacia in quanto deve essere sostituto o dal permesso di costruire in sanatoria o da un nuovo procedimento sanzionatorio, essendo l'Amministrazione tenuta, in quest'ultimo caso, al completo riesame della fattispecie, con conseguente traslazione e differimento dell'interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, respinga la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva;
Considerato che l’inefficacia degli atti sanzionatori adottati prima della presentazione dell’istanza di sanatoria – derivante dalla necessità per l’Amministrazione, sul piano procedimentale, di esaminare innanzitutto la domanda di sanatoria, effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione - si riflette, dal punto di vista processuale, in una ipotesi di improcedibilità del ricorso per carenza d'interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi, stante la necessità di una riedizione del potere sanzionatorio;
Considerato che gli effetti dell’ordine di demolizione, dalla cui inottemperanza è derivata l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili e dell’area di sedime, sono stati sospesi dall’avvenuta presentazione dell’istanza di condono, per come affermato dalla citata sentenza n. 10613/2014;
Considerato, quindi, che non sussiste il presupposto per l’adozione della gravata determinazione di trascrizione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili e dell’area di sedime, essendo sospesa l’efficacia dell’ordine di demolizione per effetto della presentazione dell’istanza di sanatoria, con conseguente preclusione alla formazione della fattispecie acquisitiva;
Considerato, altresì, che in pendenza di istanza di condono l'Amministrazione deve astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l'obbligo di pronunciarsi sulla condonabilità o meno dell'abuso edilizio, essendo l’Amministrazione, in caso di diniego di condono, tenuta ad emettere il conseguente doveroso nuovo provvedimento sanzionatorio, mentre in caso di accoglimento la costruzione diventerà lecita urbanisticamente;
Considerato, pertanto, che deve ritenersi l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, quale quello in esame, adottato prima della pronuncia da parte del Comune sulla domanda di condono pendente, in quanto posto in violazione dell'art. 38, l. 28 febbraio 1985 n. 47 e in quanto basato su di un ordine di demolizione la cui efficacia risulta sospesa dall’avvenuta presentazione di istanza di condono;
Ritenuto, conseguentemente, che il ricorso in esame vada accolto, con conseguente annullamento della gravata determinazione;
Ritenuto, in ordine alle spese di giudizio, che in considerazione della natura della vicenda contenziosa, le stesse possono essere equamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Roma - Sezione Seconda Bis
definitivamente pronunciando sul ricorso N. 6201/2000 R.G., come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la gravata determinazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 febbraio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Elena Stanizzi, Presidente, Estensore
Antonella Mangia, Consigliere
Antonio Andolfi, Primo Referendario
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 120 commi 2-bis e 6-bis cpa
sul ricorso numero di registro generale 1485 del 2016, proposto da:
SERIANA 2000 SOCIETÀ COOPERATIVA SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avv. Massimiliano Brugnoletti e Paola Scolari, con domicilio eletto presso la seconda in Brescia, via Solferino 55;
contro
AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE (ASST) BERGAMO OVEST, rappresentata e difesa dall'avv. Maurizio Boifava, con domicilio eletto presso l’avv. Alberto Salvadori in Brescia, via XX Settembre 8;
nei confronti di
CASCINA CLARABELLA - CONSORZIO DI COOPERATIVE SOCIALI SOCIETÀ COOPERATIVA ONLUS, non costituitasi in giudizio;
per l'annullamento
- del verbale del 7 novembre 2016, con il quale è stata disposta in seduta pubblica l’esclusione della cooperativa ricorrente dalla gara per l’affidamento del servizio di gestione della Comunità Protetta ad Alta Intensità di Martinengo, della Comunità Protetta a Media Intensità di Bonate Sopra, e dei programmi di residenzialità leggera;
- della nota del responsabile della UO Approvvigionamenti del 9 novembre 2016, con la quale è stata comunicata l’esclusione dalla gara;
- del verbale del 24-26 ottobre 2016, con il quale è stata disposta in seduta riservata l’esclusione della cooperativa ricorrente dalla gara;
- del verbale del 28 novembre 2016, con il quale è stata confermata l’esclusione della cooperativa ricorrente;
- degli atti presupposti, tra cui il disciplinare di gara;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’ASST Bergamo Ovest;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2017 il dott. Mauro Pedron;
Uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Considerato quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. L’ASST Bergamo Ovest, con bando pubblicato sulla GUUE il 16 luglio 2016, ha indetto una procedura aperta telematica per l’aggiudicazione, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, della gestione triennale (ripetibile per un ulteriore triennio) della Comunità Protetta ad Alta Intensità di Martinengo, della Comunità Protetta a Media Intensità di Bonate Sopra, e dei programmi di residenzialità leggera. L’importo a base di gara per il primo triennio era pari a € 2.850.000 (Iva esclusa). L’attività si colloca nella categoria dei servizi sanitari e sociali.
2. Il disciplinare di gara (art. 5) prevedeva tra i requisiti di partecipazione, quale prova della capacità economica e finanziaria, “l’attestazione, indicando data e soggetto emanante, del possesso di una copertura assicurativa contro i rischi professionali di importo non inferiore a quello a quello a base di gara”.
3. Alla gara hanno partecipato due soggetti, la ricorrente cooperativa sociale Seriana 2000 e l’ATI guidata dal consorzio di cooperative sociali Cascina Clarabella.
4. Per quanto riguarda il requisito di cui all’art. 5 del disciplinare di gara, la cooperativa ricorrente ha dichiarato, nella domanda di partecipazione, di essere in possesso di una polizza RC professionale di Zurich Insurance PLC con un massimale pari a € 1.500.000, precisando che era già stato concordato con l’agenzia “l’adeguamento, in caso di aggiudicazione dell’appalto in oggetto, del massimale da € 1.500.000 a € 3.000.000, operante con effetto immediato a semplice richiesta della scrivente”. A conferma, è stata allegata la dichiarazione del broker Assiteca BSA srl di data 7 ottobre 2016, nella quale si afferma che “su specifica richiesta la Compagnia [Zurich Insurance PLC] ci ha accordato l’aumento del massimale da € 1.500.000 a € 3.000.000, tale adeguamento sarà operante su richiesta della contraente spett.le Seriana 2000 Soc. Coop. Soc. Onlus con effetto immediato dalla richiesta stessa”.
5. Oltre alla dichiarazione del broker e alla polizza originaria con Zurich Insurance PLC, la ricorrente ha allegato alla domanda anche una diversa polizza assicurativa, con un massimale pari a € 6.000.000, riferita alla responsabilità civile. Questa seconda polizza, tuttavia, escludeva espressamente i danni derivanti da attività mediche e infermieristiche, e quelli relativi alla gestione di strutture sanitarie e all’attività professionale in genere.
6. Nella seduta riservata del 24-26 ottobre 2016 la commissione di gara ha valutato la documentazione amministrativa contenuta nelle buste telematiche, e ha deciso di escludere la cooperativa ricorrente, ritenendo che il requisito di capacità economica e finanziaria dovesse essere provato con l’allegazione di una vera e propria polizza assicurativa avente il massimale richiesto. La decisione è stata ribadita nella seduta pubblica del 7 novembre 2016, e ulteriormente confermata, in risposta a una richiesta di autotutela da parte della cooperativa ricorrente, nella seduta del 28 novembre 2016. Con la stessa procedura, la commissione di gara ha escluso anche l’altra concorrente, per mancata specificazione delle parti di servizio assegnate alle società consorziate e per incompletezza della copertura assicurativa contro i rischi professionali.
7. Contro i verbali relativi alle predette sedute, e per quanto necessario contro lo stesso disciplinare di gara, la ricorrente ha proposto impugnazione allo scopo di essere riammessa alla gara e di conservare le possibilità di aggiudicazione. In subordine, è stato chiesto il risarcimento per equivalente.
8. Le censure sono così sintetizzabili: (i) violazione dell’art. 83 comma 4-c del Dlgs. 18 aprile 2016 n. 50, nonché dell’art. 5 del disciplinare di gara, in quanto l’impegno della compagnia di assicurazione circa l’integrazione del massimale costituirebbe un livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali; (ii) violazione dell’art. 83 comma 9 del Dlgs. 50/2016 per mancato esercizio del potere di soccorso istruttorio, essendovi una polizza valida contro i rischi professionali, che avrebbe potuto essere immediatamente integrata con l’adeguamento del massimale; (iii) violazione dell’art. 86 comma 4 e dell’allegato XVII del Dlgs. 50/2016, in quanto la prova della capacità economica e finanziaria potrebbe essere data, in via alternativa, dalla copertura assicurativa contro i rischi professionali oppure da idonee dichiarazioni bancarie, presenti nel caso in esame; (iv) violazione del principio di massima partecipazione, in quanto sarebbe stato necessario interpretare il disciplinare di gara nel senso che era sufficiente anche la sola polizza per la responsabilità civile non riferita all’attività professionale; (v) in via subordinata, violazione dell’art. 30 del Dlgs. 50/2016 e del principio di trasparenza, in quanto la valutazione della documentazione amministrativa avrebbe dovuto avvenire in seduta pubblica.
9. L’ASST si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso.
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla copertura assicurativa
11. L’art. 83 comma 4-c del Dlgs. 50/2016 consente alle stazioni appaltanti di chiedere, a dimostrazione della capacità economica e finanziaria negli appalti di servizi e forniture, un livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali. La formula normativa impone che sia accertata, ancora al momento della presentazione dell’offerta, una condizione che in realtà sarà necessaria solo per lo svolgimento dell’attività, ossia un adempimento che produrrà effetti solo per l’aggiudicatario.
12. Poiché tra più interpretazioni possibili in base alla lettera della norma deve essere preferita quella che impone il costo minore per gli operatori economici, evitando la creazione di ostacoli impropri alla partecipazione, si ritiene che il livello adeguato di copertura assicurativa possa essere raggiunto anche per gradi, e con una pluralità di strumenti negoziali. Pertanto, si deve escludere che la norma richieda necessariamente l’allegazione di un nuovo contratto di assicurazione, con un massimale già adeguato al valore dell’appalto. La produzione di un simile documento, onerosa per i concorrenti, sarebbe del tutto superflua nel corso della gara, mentre assume la massima importanza al termine della stessa, quando occorre tutelare l’interesse pubblico all’immediato avvio del servizio o della fornitura.
13. Dal lato dei concorrenti, questo significa che l’esclusione dalla gara è una sanzione ragionevole e proporzionata solo quando la stazione appaltante sia esposta al rischio di selezionare un aggiudicatario non in grado di attivare immediatamente la copertura assicurativa. Al contrario, se vi è la certezza che la copertura assicurativa richiesta dal bando o dal disciplinare di gara sarà presente al momento dell’aggiudicazione, e che l’attivazione della suddetta copertura dipende solo dalla volontà dell’aggiudicatario, e non dall’assenso di terzi, l’interesse pubblico può dirsi tutelato, e di conseguenza risulta indifferente lo strumento negoziale che ha reso possibile il risultato.
14. La clausola di incremento del massimale riferita alla polizza già stipulata dalla cooperativa ricorrente rientra perfettamente in tale schema, perché, come si è visto, non lascia spazio a ulteriori contrattazioni con la compagnia di assicurazione. L’attivazione della garanzia con il massimale richiesto è una potestà rimessa esclusivamente alla parte contraente una volta verificatasi l’aggiudicazione.
Sul soccorso istruttorio
15. L’art. 5 del disciplinare di gara, che richiede il possesso di una copertura assicurativa contro i rischi professionali di importo non inferiore a quello a quello a base di gara, può essere interpretato come una mera riformulazione dell’art. 83 comma 4-c del Dlgs. 50/2016. Non vi è quindi alcun ostacolo all’allegazione di un impegno della compagnia di assicurazione, diretto o attestato dal broker, per la futura stipula o integrazione, a semplice richiesta del concorrente interessato, di una polizza con le caratteristiche richieste.
16. Se le espressioni utilizzate nel disciplinare di gara fossero state più esplicite nel senso di imporre l’allegazione di un nuovo contratto di assicurazione con un certo massimale, questo avrebbe costituito un aggravio della posizione dei concorrenti rispetto alla disciplina di legge, e dunque si sarebbe verificata l’ipotesi di nullità parziale prevista dall’art. 83 comma 8 del Dlgs. 50/2016.
17. In questo quadro, il soccorso istruttorio invocato dalla cooperativa ricorrente appare inutile, in quanto la stazione appaltante avrebbe dovuto semplicemente riconoscere l’idoneità della clausola di incremento del massimale, rinunciando alla pretesa di ottenere dai concorrenti un contratto di assicurazione già sottoscritto.
Sulla prova della capacità economica e finanziaria
18. Quanto sopra esposto è sufficiente ad assicurare alla cooperativa ricorrente il reingresso nella gara. Occorre tuttavia sottolineare, proseguendo nell’esame dei motivi di ricorso, che tale risultato viene conseguito esclusivamente grazie all’impegno assunto dalla compagnia di assicurazione relativamente all’incremento del massimale della polizza contro i rischi professionali.
19. Questo requisito non era alternativo alle dichiarazioni bancarie, parimenti richieste dal disciplinare di gara a dimostrazione della capacità economica e finanziaria. L’allegato XVII del Dlgs. 50/2016, infatti, nello stabilire l’elenco delle referenze valide come mezzi di prova, specifica che è possibile utilizzare una o più di tali referenze. La stessa precisazione è contenuta nell’art. 86 comma 4 del Dlgs. 50/2016. La scelta è rimessa alla stazione appaltante, che può quindi esigere anche una pluralità di mezzi di prova, sommando diversi gruppi o diverse voci all’interno dello stesso gruppo, come è avvenuto nel caso in esame (le dichiarazioni bancarie e la copertura assicurativa contro i rischi professionali sono inserite nello stesso gruppo di referenze). Il limite è solo quello (implicito) della ragionevolezza, e dunque la stazione appaltante dovrà astenersi dal richiedere mezzi di prova ridondanti. Nello specifico, tuttavia, la previsione della copertura assicurativa contro i rischi professionali appare giustificata dalla particolare delicatezza e complessità delle prestazioni erogate in una comunità protetta.
20. Non sarebbe stata utile come requisito sostitutivo la polizza riferita alla responsabilità civile in ambito extraprofessionale. In effetti, se si considera che il servizio è rivolto a soggetti fragili, si deve ritenere che la stazione appaltante, individuando come necessaria la copertura assicurativa contro i rischi professionali, abbia correttamente esercitato la propria discrezionalità.
Sulla procedura di gara
21. Non sembra infine esservi alcun profilo di violazione dell’art. 30 del Dlgs. 50/2016 e del principio di trasparenza per il fatto che la valutazione della documentazione amministrativa sia avvenuta in seduta riservata (v. verbale del 24-26 ottobre 2016), dopo che in seduta pubblica (v. verbale del 13 ottobre 2016) era stata constatata la completezza della suddetta documentazione.
22. In realtà, tale procedura è perfettamente legittima (oltre che conforme all’art. 16 del disciplinare di gara), in quanto distingue le fasi che richiedono la pubblicità (per consentire il controllo sul contenuto materiale delle offerte da parte di tutti i concorrenti) e le fasi che invece possono svolgersi anche senza la presenza del pubblico, in quanto dedicate alla qualificazione delle irregolarità di documenti ormai identificati e non più esposti al rischio di sostituzioni o manipolazioni.
Conclusioni
23. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati, per i profili sopra esposti, e la riammissione della cooperativa ricorrente alla gara. La pronuncia favorevole su questo punto non lascia margini alla richiesta di risarcimento per equivalente, peraltro introdotta solo in via subordinata.
24. Tenendo conto dell’attività interpretativa resa necessaria dalla formulazione dell’art. 83 comma 4-c del Dlgs. 50/2016, e considerando, da un lato, la ridotta attività processuale imposta dal rito ex art. 120 commi 2-bis e 6-bis cpa, e dall’altro la reiezione della domanda risarcitoria, appare giustificata l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
25. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione ai sensi dell’art. 13 comma 6-bis.1 del DPR 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando:
(a) accoglie il ricorso, come precisato in motivazione;
(b) respinge la domanda di risarcimento per equivalente;
(c) compensa integralmente le spese di giudizio;
(d) pone il contributo unificato a carico dell’ASST Bergamo Ovest.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Calderoni, Presidente
Mauro Pedron, Consigliere, Estensore
Stefano Tenca, Consigliere
Altro...
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8749 del 2012, proposto da:
Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Istituto di Istruzione Superiore "Artemisia Gentileschi" di Carrara, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Supermatic Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Ivan Marrone, con domicilio eletto presso lo studio Studio Lessona in Roma, via Vittorio Emanuele II, 18;
nei confronti di
Snack & Drink S.a.s. di Bonotti Giovanni & C., non costituita in giudizio;
Ivs Italia S.p.a., non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA - FIRENZE: SEZIONE II n. 01680/2012, resa tra le parti, concernente aggiudicazione gara per l'affidamento del servizio di somministrazione bevande tramite distributori automatici.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Supermatic Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 febbraio 2017 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Tidore, e Vittorio Chierroni per delega di Marrone.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 1680/2012 del 19-10-2012 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana accoglieva il ricorso proposto da Supermatic s.r.l. inteso ad ottenere l’annullamento degli atti e dei provvedimenti con cui l’Istituto “Artemisia Gentileschi” aveva indetto, disciplinato, svolto ed aggiudicato la gara per l’affidamento del servizio di somministrazione di bevande tramite distributori automatici, nonché la condanna al risarcimento dei danni.
In particolare, il giudice di primo grado annullava gli atti dell’intera procedura e pronunziava condanna per danno da perdita di chance e per danno emergente riferito ai costi di partecipazione alla gara.
La prefata sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“Con lettera di invito trasmessa il 25 agosto 2005 l’Istituto di Istruzione Superiore “Artemisia Gentileschi” di Carrara indiceva una gara per l’affidamento del servizio di somministrazione di bevande tramite distributori automatici da aggiudicarsi in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. In proposito la lettera di invito stabiliva l’assegnazione di massimo 50 punti per la valutazione delle caratteristiche qualitative dei prodotti offerti; massimo 30 punti per il contributo economico offerto alla scuola; massimo 20 punti per le modalità organizzative (tempi e modi della fornitura). La lettera di invito stabiliva, peraltro, che l’offerta economica dovesse essere inclusa nella medesima busta contenente gli elementi qualitativi dell’offerta. Nonostante la richiesta di presenziare all’apertura delle buste, la Commissione riteneva di procedervi in seduta riservata il 17 ottobre 2011. Il successivo 24 ottobre Supermatic riceveva comunicazione dell’aggiudicazione della gara in favore della ditta Snack and Drink di G. Bonotti & C., con la quale veniva poi stipulato il contratto. Avverso gli atti suddetti proponeva ricorso la società in intestazione chiedendone l’annullamento, oltre che il risarcimento del danno...”.
Avverso la sentenza di primo grado il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e l’Istituto di Istruzione Superiore “Artemisia Gentileschi” hanno proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità per i molteplici profili che saranno di seguito illustrati e chiedendone l’annullamento.
Si è costituita in giudizio la Supermatic s.p.a., deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.
Ha riproposto, altresì, il secondo motivo del ricorso di primo grado, specificando che “si ripropone il secondo motivo del ricorso di primo grado sul quale la sentenza del TAR Toscana ex adverso appellata non si è espressa perché assorbito dalla pronuncia di accoglimento del terzo e quarto motivo di impugnazione (il primo motivo di ricorso era stato rinunciato nel corso del giudizio di primo grado)”.
Con esso ha lamentato la violazione e la falsa applicazione della lex specialis della procedura, rilevando che la sua offerta era certamente la migliore per ragioni non incidenti nel merito delle scelte operate dalla commissione, ma sulla base di meri calcoli matematici, onde avrebbe dovuto essere dichiarata aggiudicataria della gara.
In corso di giudizio la Supermatic s.p.a. produceva memoria illustrativa e depositava documentazione.
La causa veniva discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 9-2-2017.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello il M.I.U.R. e l’Istituto “Artemisia Gentileschi” censurano la sentenza di primo grado nella parte in cui ha riscontrato la violazione del principio secondo il quale la Commissione non può conoscere e valutare i profili economici dell’offerta se non dopo aver esaminato e attribuito i punteggi relativi all’offerta tecnica.
Deducono che l’Amministrazione ha posto in essere una procedura conforme al D.I. 44/2001, concernente le istruzioni generali sulla gestione amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche.
Si è, pertanto, trattato di una procedura informale, disciplinata dal predetto decreto, assimilabile all’ipotesi di cottimo fiduciario di cui all’articolo 125 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Sottolineano che in tale procedura è possibile un abbassamento del rigore formale della procedura di gara, nella misura in cui devono essere rispettati i soli principi dei quali le regole formali costituiscono esplicitazione, non essendo esigibile l’osservanza di tutte le regole tipiche dell’evidenza pubblica comunitaria.
Pertanto, non sarebbe indispensabile la netta e rigorosa separazione tra valutazione del profilo tecnico e del profilo economico delle offerte presentate.
Il D.I. 44/2001 dispone il richiamo alla normativa degli appalti solo quanto ai suoi principi.
La censura non è meritevole di favorevole considerazione.
La gravata sentenza così motiva sul punto.
“Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della lettera di invito e degli esiti del procedimento per violazione del principio di segretezza delle offerte, di imparzialità e di trasparenza. La tesi deve essere condivisa. In proposito la giurisprudenza è ferma nel ritenere l’illegittimità della lex specialis di gara ove preveda l’inserimento, nell’ambito di un’unica busta, tanto dell’offerta tecnico-funzionale, quanto di quella economica, atteso che in tal modo viene a determinarsi una inammissibile commistione tra gli elementi tecnici e quelli economici dell’offerta stessa. Infatti, nel caso di aggiudicazione secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali, cosicchè nel caso della denunciata commistione risulta violata la regola della par condicio espressamente sancita, tra i principi generali relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici dall’articolo 2 del d.lgs. n. 163/2006. Né vale in senso contrario affermare, come sostenuto dalla difesa erariale nella sua memoria del 17 dicembre 2011, che la stazione appaltante abbia dato applicazione al decreto interministeriale n. 44/2001 recante le istruzioni generali sulla gestione amministrativo/contabile delle istituzioni scolastiche, discostandosi dalla disciplina generale dettata dal Codice dei contratti pubblici. Ciò comporterebbe un’attenuazione del rigore formale della procedura di gara in analogia con quanto previsto dall’art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 in tema di cottimo fiduciario. Invero, è stato condivisibilmente osservato che il cottimo fiduciario, ex art. 125, comma4, del d.lgs. n. 163/2006, ha natura di procedura negoziata ai sensi dell’art. 57 del medesimo decreto. Ne segue, contrariamente a quanto la resistente amministrazione mostra di ritenere, che il principio sopra affermato – che risponde all’esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di gara – opera indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in cui all’aggiudicazione si pervenga attraverso un’attività di tipo procedimentale (cfr. l’art. 2 del citato d.lgs. n. 163/2006), ancorchè semplificata e quindi anche in relazione ai cottimi fiduciari…Dunque, anche nell’ipotesi di scelta di una procedura semplificata, continua a trovare applicazione il principio, posto a tutela dell’imparzialità, della trasparenza, del corretto svolgimento della procedura, in base al quale vanno tenute separate e distinte l’offerta tecnica da quella economica, nel mentre la fase di apertura dei plichi concernenti la documentazione amministrativa e la verifica della stessa , nonché quella di apertura delle buste con le offerte economiche devono sempre avvenire in seduta pubblica…”.
Il Collegio condivide la determinazione assunta dal giudice di primo grado per le ragioni che di seguito si espongono.
Va in primo luogo evidenziato che l’articolo 34 dell’invocato decreto interministeriale 1 febbraio 2001, n. 44 prevede espressamente, al comma 5, che “Le istituzioni scolastiche sono tenute ad osservare le norme dell’Unione Europea in materia di appalti e/o forniture di beni e servizi”.
Da tanto discende che l’utilizzo di una procedura semplificata non può assolutamente derogare ai principi generali della materia.
In particolare, gli stessi risultano declinati nell’articolo 2 del D.lgs. n. 163/2006, il quale opera riferimento al “rispetto dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità nonché quello di pubblicità”.
Ciò posto, va evidenziato che la lettera di invito precisa che “l’aggiudicazione avverrà…all’impresa che sarà in grado di fornire il servizio nel modo che soddisfi le esigenze della scuola e che sia più conveniente per l’istituzione stessa, secondo la valutazione dei seguenti criteri: Offerta del prezzo economicamente più vantaggioso in relazione alla valutazione delle caratteristiche qualitative dei prodotti offerti massimo punti 50; Valutazione del contributo da assegnare alla scuola massimo punti 30; Modalità organizzative in riferimento ai modi e tempi della fornitura e della relativa manutenzione dei distributori massimo punti 20”.
Da quanto sopra risulta evidente che il criterio di aggiudicazione prescelto risulta essere quello della offerta economicamente più vantaggiosa, determinata attraverso la valutazione di elementi di tipo quantitativo (squisitamente economici) e di tipo qualitativo.
Orbene, l’applicazione del principio generale della par condicio comporta, per costante giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, III, 11-3-2011, n. 1582; VI, 12-12-2002, n. 6795), che le offerte economiche devono restare segrete per tutta la fase procedimentale in cui la commissione compie le sue valutazioni sugli aspetti tecnici delle offerte, al fine di evitare che gli elementi di valutazione di carattere automatico possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali; con la conseguenza che la componente tecnica dell’offerta e la componente economica della stessa devono essere inserite in buste separate, proprio al fine di evitare la suddetta commistione.
Di conseguenza, deve ritenersi l’illegittimità della lettera di invito che non preveda la separazione delle due componenti dell’offerta, in modo da consentire, all’interno del processo valutativo, il sopra indicato modus procedendi.
La regola sopra delineata è espressione di un principio generale (par condicio), dal cui rispetto non sono esentate le procedure di cottimo fiduciario e quelle semplificate, quali quella oggetto del presente giudizio.
D’altra parte, l’invito ad una pluralità di soggetti, la predeterminazione di criteri di valutazione e di punteggi attribuibili concorrono a determinare nella specie la presenza di una procedura comparativa, in relazione alla quale i principi generali di derivazione comunitaria, riportati nell’articolo 2 del d.lgs. n. 163/2006, devono trovare comunque applicazione.
In tal modo, vale evidenziare che la mancata previsione di buste separate e la possibilità di conoscenza degli elementi economici dell’offerta prima della valutazione della componente tecnica rileva non direttamente quale violazione della specifica regola in proposito affermata dalla giurisprudenza, quanto piuttosto quale mancata applicazione di un principio generale di derivazione comunitaria, applicabile anche alle procedure semplificate.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte il motivo di appello deve essere respinto.
Con ulteriore censura gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza di primo grado anche laddove ha ritenuto che la procedura di gara fosse stata viziata dal fatto che l’apertura delle buste era avvenuta in seduta riservata, con conseguente pregiudizio del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.
Deducono in proposito che, in tema di cottimo fiduciario, è sufficiente l’applicazione dei soli principi e non dell’intera disciplina del codice degli appalti, onde sarebbe legittimo l’operato di una commissione giudicatrice che abbia proceduto all’apertura delle buste, contenenti le offerte, in seduta segreta, in quanto in materia di cottimo fiduciario non è previsto il rispetto di forme particolari, trattandosi di gara informale, né del principio di pubblicità delle gare.
La censura non è meritevole di favorevole considerazione, alla luce dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in materia e dal quale la Sezione non ritiene di discostarsi.
E’ stato, infatti, affermato che i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza predisposizione del bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario ( cfr. Cons. Stato, A.P., 31-7-2012, n. 31; sez. IV, 14-5-2014, n. 2501).
Invero, nella procedura di cottimo fiduciario valgono i principi della par condicio e della trasparenza, con la conseguenza che è illegittima l’apertura delle buste in seduta segreta in quanto contraria a tali principi, giacchè impedisce irrimediabilmente ai concorrenti un controllo sul corretto operato della commissione giudicatrice ( cfr. Cons. Stato, V, 1-3-2012, n. 1195).
La pronuncia di primo grado trova, pertanto, condivisione, laddove afferma che “la pubblicità delle sedute di gara risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza e all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi in assenza di un riscontro immediato. Nel caso di specie l’illegittimità appare ancor più evidente se solo si consideri che in seduta riservata è avvenuta l’apertura dell’unico plico contenente sia l’offerta tecnica che quella economica”.
Con altro motivo gli appellanti censurano la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha parzialmente accolto la domanda volta al risarcimento del danno per equivalente, valutandolo in termini di perdita di chance e quantificandolo in euro 5000.
Premettono che esso è un danno patrimoniale relativo alla perdita non di un vantaggio economico ma della mera possibilità di conseguirlo.
Di esso ne deve essere provata l’esistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, potendosi ricorrere alla valutazione equitativa solo per la determinazione del suo ammontare.
Nel caso di specie parte ricorrente avrebbe omesso di provare sia un valido nesso causale tra il fatto e il danno, inteso quale perduta possibilità di raggiungere un risultato utile ragionevolmente probabile, sia la realizzazione in concreto di alcuni presupposti per il raggiungimento del risultato sperato.
Aggiungono che la declaratoria di illegittimità degli atti impugnati, con il conseguente annullamento della gara, non è idonea a soddisfare tali requisiti ed, inoltre, essa si è limitata ad indicare una somma di denaro, senza alcun riferimento ai criteri di liquidazione, i quali dovrebbero tenere conto della rilevante probabilità del vantaggio utile, valutata sulla base di criteri statistici.
Evidenziano , inoltre, che non si può porre alla base della quantificazione del danno l’utile eventualmente ottenuto dalla ricorrente in caso di aggiudicazione dell’appalto.
Contestano, inoltre, la pronuncia gravata, nella parte in cui ha riconosciuto il danno emergente derivante dai costi di partecipazione alla gara, in quanto i costi sostenuti dall’impresa per partecipare alla gara non sono risarcibili a chi lamenti la mancata aggiudicazione o anche la sola perdita di chance di aggiudicarselo, costituendo danno emergente solo qualora l’impresa subisca un’illegittima esclusione, perché solo in tal caso viene in considerazione la pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili.
La gravata sentenza così motiva sul punto.
“Nella sua memoria conclusiva la Supermatic s.r.l. evidenzia che la stipulazione del contratto, peraltro avvenuta in violazione del termine di standstill, e la durata annuale del servizio hanno determinato l’irrimediabile consolidamento del pregiudizio in suo danno. Se ne chiede quindi il ristoro per equivalente, avuto riguardo al fatto che l’annullamento integrale della gara comporta che il danno può essere valutato solo in termini di perdita di chance. In assenza di controdeduzioni dell’Amministrazione, il Collegio reputa ragionevole e degna di affidamento l’affermazione della ricorrente (peraltro supportata indirettamente dall’andamento della gestione nel corso dell’anno scolastico 2010/2011) secondo cui, dedotti i costi e il contributo dovuto all’Istituto scolastico, l’utile netto ammonterebbe a circa euro 15.000, 00.
Si rammenta, in proposito che la prova della sussistenza del danno da perdita di chance, in seguito all’emanazione di un provvedimento illegittimo, può avvenire o attraverso l’articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo, rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza; ovvero secondo un processo deduttivo conforme al criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del cd. “più probabile che non”, e cioè, “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibile dall’osservazione dei fenomeni sociali” (Cons,. Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974). Ne discende che, tenuto conto del numero delle imprese partecipanti alla gara in numero di tre, il danno può essere quantificato in euro 5000, 00. Il danno emergente, riferito ai costi sopportati per la partecipazione alla gara, viene quantificato nel 5% di tale importo, ossia euro 250, 00….”.
Ciò posto, ritiene la Sezione che il motivo di appello, con riferimento alla quantificazione del danno per perdita di chance, sia solo parzialmente fondato, nei sensi di seguito specificati.
E tanto con riferimento alla peculiarità della vicenda ed alle considerazioni che di seguito si svolgono.
Il Tribunale Amministrativo ha disposto l’annullamento dell’intera gara.
In tal modo, avendo acclarato che la stessa non avrebbe potuto comunque condurre alla aggiudicazione del servizio a nessuno dei partecipanti, ha ritenuto che nella specie alla ricorrente fosse dovuto il solo risarcimento del danno per perdita di chance.
In buona sostanza, il risarcimento è stato ancorato alla mancata probabilità per la ricorrente, dovuta alle illegittimità riscontrate nella condotta amministrativa, di ottenere il bene della vita.
Parte appellante deduce che nella specie il ricorrente avrebbe omesso di provare l’esistenza sia di un valido nesso causale tra il fatto e il danno, sia la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato.
Il rilievo non è condivisibile.
Va in proposito in primo luogo evidenziato che il nesso causale tra il fatto è il danno risulta evidente, considerandosi che la mancata legittima conclusione della procedura in questione è dipesa certamente dalla condotta illegittima dell’amministrazione, in relazione alle illegittimità sopra richiamate, le quali hanno condotto all’annullamento della intera procedura di gara.
In ordine al requisito della colpa dell’amministrazione, deve essere richiamato il costante orientamento giurisprudenziale, il quale, in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto, ritiene che non è necessario provare la colpa dell’amministrazione poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa comunitaria.
In ogni caso, il suddetto elemento psicologico risulta in concreto sussistente, ove si consideri che le rilevate illegittimità si traducono nella violazione di principi generali che presidiano lo svolgimento di procedure di affidamento, onde il comportamento dell’amministrazione si è qualificato in termini di violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, certamente non scusabile in relazione a natura e portata dei principi che presidiano la materia.
Ritiene, inoltre, la Sezione che nella specie non si è di fronte ad una mera eventualità di conseguimento del bene della vita, ma ad una rilevante probabilità di esso, la quale emerge dagli atti del giudizio.
Va, invero, osservato, che effettivamente il costo dei prodotti offerti dalla società appellata risulta inferiore rispetto a quello fornito dall’aggiudicataria, anche tenendo conto della circostanza che il prezzo del prodotto avrebbe dovuto essere stato arrotondato ai cinque centesimi, in relazione al fatto che le macchine non erogavano il resto.
Orbene, tale elemento, salve restando le valutazioni della stazione appaltante in ordine alla convenienza o meno dell’utilizzo delle ricariche automatiche, e la circostanza che in realtà il contributo offerto all’Istituto scolastico è pressocchè identico (con una variazione di soli 60 euro annui) rivelano certamente l’esistenza non di una mera eventualità di conseguimento del bene della vita ma di una rilevante probabilità della stessa, la quale può rientrare, a giudizio della Sezione , nella percentuale del 50%, così configurandosi il requisito del “più probabile che non”.
Risulta, in tal modo, l’esistenza di una chance rilevante ai fini del risarcimento del danno.
Venendo ora all’esame dei parametri utilizzati dal giudice di primo grado per la quantificazione del danno, va sottolineato che gli stessi risultano condivisibili, in ragione della peculiarità della procedura e del servizio.
Va, invero, osservato che non esiste nella specie un prezzo a base d’asta ovvero un corrispettivo predeterminato, elemento attuale al quale correlare la misura del danno.
Di conseguenza, correttamente il giudice di primo grado ha operato riferimento, quale base di calcolo, all’utile presunto che sarebbe derivato dallo svolgimento del servizio, la cui misura, correlata a quella relativa alla gestione dell’anno precedente ed analiticamente indicata nella memoria di primo grado della Supermatic del 15-6-2012, non è stata oggetto di contestazione da parte dell’Amministrazione.
Corretta risulta, a giudizio della Sezione, nell’operazione di concreta quantificazione, la considerazione della terza parte di tale base di calcolo, in quanto si è tenuto conto della circostanza che alla procedura avevano partecipato tre ditte.
Peraltro, il Collegio ritiene che l’importo liquidato in euro 5000, 00 debba essere ridotto, nell’ottica della determinazione equitativa dello stesso, in euro 4000, 00, atteso che, trattandosi di danno da perdita di chance ed operandosi riferimento ad un dato non certo e non ancora esistente ( eventuale utile che sarebbe stato percepito), la somma di euro 15.000 (utile conseguito nell’anno precedente), da considerare quale base di calcolo, debba essere ridotta ad euro 12.000, proprio perché non vi è certezza in ordine al conseguimento del medesimo anche nell’anno di riferimento della procedura per cui è causa.
Quanto, poi, alla liquidazione del danno emergente, riferito ai costi per la partecipazione alla gara, ritiene la Sezione che gli stessi non siano dovuti, aderendosi all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale i costi di partecipazione alla gara non possono essere richiesti in sede di domanda di risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, e dunque a fortiori nell’ipotesi in cui venga in rilievo la mera chance, perché essi costituiscono una voce di spesa che resta comunque a carico dell’impresa che consegua il contratto all’esito della procedura di affidamento (cfr. Cons. Stato, V, 28-7-2015, n. 3716; III, 10-4-2015, n. 1839).
Invero, il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara pubblica, non è risarcibile, in favore dell’impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell’appalto (o anche la perdita della relativa chance). Difatti, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti questi profili dell’illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in rilievo solo la pretesa risarcitoria del contraente che si duole di essere stato coinvolto in trattative inutili (cfr. Cons, Stato, VI, 12-4-2013, n. 1999).
Né risulta condivisibile l’argomentazione difensiva della Supermatic, secondo cui nella specie, trattandosi di gara affetta da vizio genetico che mai avrebbe potuto condurre ad una aggiudicazione legittima, ricorrerebbe la medesima ratio della fattispecie della illegittima esclusione, nella quale la suddetta voce di danno risulta risarcibile.
Osserva in proposito il Collegio che nella vicenda in esame il vizio genetico addotto dall’appellata (concernente in particolare la lettera di invito) era circostanza dalla stessa conosciuta ben prima della presentazione della domanda alla gara.
Nonostante tale conoscenza essa ha ugualmente presentato la domanda, in tal modo accettando il rischio di un annullamento dell’intera gara (che, tra l’altro, ha essa stessa determinato con la proposizione del ricorso, non essendone risultata aggiudicataria).
Per tali ragioni, dunque, il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara non le è dovuto.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, pertanto, il motivo di appello è parzialmente fondato, nel senso che il danno da perdita di chance deve essere liquidato in euro 4000, 00 e che non è dovuto il richiesto danno emergente per i costi di partecipazione alla gara.
In conclusione, l’appello è solo parzialmente fondato, limitatamente alla entità della somma dovuta quale risarcimento del danno ed entro tali limiti la sentenza appellata deve essere riformata, risultando per il resto confermata.
Va, invero, rilevato che il secondo motivo del ricorso di primo grado della Supermatic, non esaminato dal Tribunale Amministrativo Regionale e riproposto in sede di appello, risulta inammissibile.
E’ vero che nel ricorso di primo grado la società ha chiesto l’esame dei motivi di ricorso nell’ordine in cui essi sono proposti e che dall’accoglimento dello stesso sarebbe derivata l’aggiudicazione della gara in favore della stessa.
Va, peraltro, evidenziato che nell’epigrafe del ricorso la Supermatic ha chiesto indistintamente l’annullamento “degli atti e dei provvedimenti con cui l’Istituto ha indetto, disciplinato, svolto ed aggiudicato la gara”, indicando, nell’ordine “la lettera di invito…..i verbali di gara, il provvedimento di aggiudicazione dalla stessa disposto in favore della Snack and Drink…i contratti eventualmente stipulati”.
Essa ha, pertanto, richiesto l’annullamento dell’intera procedura.
Manca, dunque, una graduazione della richiesta di annullamento, la quale, invece, per rendere ammissibile il secondo motivo del ricorso, dovuto essere articolata, in via principale, nella richiesta di annullamento dei verbali di gara nella parte in cui hanno valutato le offerte e del provvedimento di aggiudicazione e, in via subordinata, nell’annullamento di tutti gli atti della procedura, ivi compresa la lettera di invito.
Ciò posto, in presenza di una domanda di annullamento riferita all’intera procedura di gara, risulta evidente l’inammissibilità di un motivo diretto ad ottenere l’aggiudicazione della gara, considerato che esso risulta incompatibile con la domanda di annullamento proposta, così come articolata (ripetesi, riferita a tutti gli atti dell’intera procedura).
Invero, l’aggiudicazione in favore della Supermatic non sarebbe risultata possibile in caso di annullamento della intera procedura.
Tanto a maggior ragione in presenza di motivi di ricorso (il terzo ed il quarto), dalla cui favorevole considerazione sarebbe derivato l’accoglimento della domanda di annullamento conformemente alla sua proposizione.
Condivisibilmente, pertanto, il giudice di primo grado ha esaminato ed accolto il terzo ed il quarto motivo del ricorso, considerandosi che gli stessi risultavano diretti all’annullamento dell’intera procedura di gara, in aderenza ed in corrispondenza piena alla domanda di annullamento articolata nella epigrafe del ricorso introduttivo ( una diversa articolazione della domanda non è contenuta nella parte finale del ricorso), comportando pure l’eliminazione dal mondo giuridico dell’aggiudicazione in favore della controinteressata.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Le spese del giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti costituite, avuto riguardo alla peculiarità della controversia ed al parziale accoglimento dell’appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, accoglie la domanda risarcitoria nei limiti in motivazione precisati.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Sergio Santoro, Presidente
Carlo Deodato, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Francesco Mele, Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1598 del 2016, proposto da:
Mengozzi s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Teresa Grassi e Massimiliano Brugnoletti, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Firenze, piazza Nazario Sauro, n. 2;
contro
Estar - Ente di Supporto Tecnico Amministrativo Regionale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Domenico Iaria, con domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, via dei Rondinelli, n. 2;
Regione Toscana, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Luciana Caso e Arianna Paoletti, con domicilio eletto presso l’Ufficio Legale della Regione Toscana in Firenze, piazza dell'Unità Italiana, n. 1;
per l'annullamento
- del Bando per l'affidamento dell'appalto per il servizio raccolta, trasporto e smaltimento rifiuti sanitari, pubblicato sulla GURI il 24.10.2016;
- del disciplinare di gara;
- del Capitolato normativo;
- dell'allegato C1;
- dello schema di convenzione;
- di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali, compresa la deliberazione di indizione della gara.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Estar - Ente di Supporto Tecnico Amministrativo Regionale e di Regione Toscana;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2017 il dott. Riccardo Giani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1 - Con il ricorso introduttivo del giudizio la società <Mengozzi s.p.a.>, premesso che la Regione Toscana quale soggetto aggregatore ha indetto una procedura aperta finalizzata alla conclusione di una convenzione quadro per la gestione del servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti sanitari, impugna il bando di gara, il disciplinare, il capitolato normativo e gli altri atti, come meglio in epigrafe indicati, contestando specificamente le previsioni degli atti di gara relativi alla c.d. “clausola sociale”. Si tratta cioè della previsione di cui all’art. 9.6 del Capitolato, in base alla quale, al fine di promuovere la stabilità del personale impiegato, l’aggiudicatario dovrà, da un lato, applicare il contratto che presenta le migliori condizioni fra i contratti collettivi di settore, e, dall’altro, “è obbligato al rispetto della clausola sociale finalizzata al mantenimento dei livelli occupazionali, come risultante dalle liste fornite, in allegato C1, relative alle unità lavorative attualmente impiegate del servizio”, cioè 47 lavoratori suddivisi nelle aree territoriali corrispondenti alle vecchie ESTAV. Parte ricorrente evidenzia che il mancato rispetto della clausola sociale potrà essere valutato, secondo le prescrizioni del Capitolato stesso, come grave negligenza nell’esecuzione dell’appalto e che l’art. 9.7 del capitolato stesso prevede la costituzione di specifico organo tecnico preposto al controllo e vigilanza del rispetto della clausola sociale.
2 - Nei confronti degli atti gravati la società ricorrente formula le seguenti censure:
– “Violazione dell’art. 50 d.lgs. n. 50/2016. Violazione dell’art. 2070 c.c. Violazione dell’art. 41 Cost. e del principio della libertà d’impresa. Carenza di istruttoria. Violazione dell’art. 1655 c.c. e dell’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003”. In seno alla suddetta censura vengono poste due questioni: a) in primo luogo parte ricorrente censura la “clausola sociale” così come formulata negli atti di gara, giacché tesa non a “promuovere la stabilità occupazionale”, come prevede l’art. 50 del Codice degli appalti, bensì ad imporre l’assunzione di tutto il personale attualmente presente, indicandone numero, inquadramento, orario, in tal modo violando i principi del diritto dell’U.E., di concorrenza e libertà d’impresa, pure richiamati dall’art. 50 cit.; evidenzia che detta formulazione è in contrasto con i principi in materia elaborati dalla giurisprudenza e dall’ANAC, dovendo la “clausola sociale” solo comportare priorità nell’assorbimento del personale uscente e non potendo imporre il riassorbimento dell’intero personale uscente, incidendo altrimenti sulla libera esplicazione della libertà imprenditoriale; tanto più in presenza di un elenco del personale (Allegato C1) che risulta sovradimensionato rispetto alle esigenze, anche perché l’oggetto della gara da svolgere è diverso dal precedente affidamento, non comprendendo alcuni ospedali e alcune prestazioni; parte ricorrente rileva infine che la “clausola sociale” come formulata, se ritenuta conforme all’art. 50 cit., impone la disapplicazione del suddetto art. 50 per contrasto con le norme europee; b) in secondo luogo parte ricorrente evidenzia come la stazione appaltante abbia esorbitato rispetto ai limiti imposti dall’art. 50 cit. anche imponendo l’applicazione di uno specifico contratto collettivo, quello migliore, e non di un contratto collettivo di settore come previsto dall’art. 50 cit., tanto più che non esiste un CCL del settore rifiuti sanitari;
– “Violazione degli artt. 3, 35, 97 del d.lgs. n. 50 del 2016. Erronea e carente istruttoria”. Parte ricorrente rileva la insufficienza della base d’asta così come predisposta dalla stazione appaltante, che presuppone un prezzo di € 1,38/kg, del 20% più basso dei prezzi correnti e delle aggiudicazioni similari, anche perché ulteriormente abbattuto dal passaggio del pagamento del prezzo da peso lordo a peso netto.
3 - Si sono costituti in giudizio, per resistere al ricorso, ESTAR e Regione Toscana. ESTAR eccepisce la inammissibilità della prima censura, perché la ricorrente è il gestore uscente, per cui non ci sarebbe alcun passaggio di personale, che presuppone il cambio di gestore, con conseguente inapplicabilità della clausola sociale. Le resistenti evidenziano che la clausola in contestazione è frutto di Protocollo d’Intesa tra Regione, ESTAR e Sindacati del 7.4.2015, in esito al quale si è svolto un confronto per la stesura degli atti della presente gara ove è stato stabilito di garantire la stabilità di tutto il personale del servizio in discussione, dato il difficile quadro economico e la scarsa specializzazione del personale stesso che ne rende difficile il ricollocamento; esse rilevano poi che la giurisprudenza richiamata in ricorso, relativa alla necessità di configurare la clausola sociale in termini compatibili con la libertà d’impresa, è stata elaborata sotto la vigenza della vecchia normativa, senza tener conto degli sviluppi normativi successivi e a tal fine richiamano la dimensione maggiormente sociale della normativa europea dopo il Trattato di Lisbona, l’art. 3 comma 3 TUE e art. 9 TFUE, gli artt. 18, comma 2, e 70 della nuova direttiva appalti, i criteri direttivi della legge n. 11 del 2016 e il testo dell’art. 50 del d.lgs. n. 50 del 2016. ESTAR eccepisce anche la inammissibilità del secondo motivo, non essendo la stazione appaltante tenuta a garantire la remuneratività di ogni offerta e comunque la sua infondatezza.
4 – Chiamata la causa alla pubblica udienza del giorno 31 gennaio 2017 e sentiti i difensori comparsi, come da verbale, la stessa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
5 – Deve essere in primo luogo esaminata la prima doglianza formulata in seno al primo motivo di ricorso, con la quale parte ricorrente contesta la “clausola sociale” così come formulata dall’art. 9.6 del Capitolato e poi ripresa dall’art. 14 dello schema di Convenzione, per contrasto con l’art. 50 del d.lgs. n. 50 del 2016 e con la normativa europea, in quanto prevede non la priorità dell’assunzione del personale uscente ma la obbligatoria assunzione di tutto il personale precedentemente impiegato.
5.1 – ESTAR eccepisce la inammissibilità della suddetta censura, evidenziando che nella specie non verrebbe in considerazione l’obbligo di assunzione da parte dell’operatore subentrante poiché la società ricorrente è il gestore attuale del servizio.
L’eccezione è infondata.
Risulta decisivo il rilievo secondo cui la società ricorrente risulta essere gestore solo di parte dei servizi messi a gara, peraltro in raggruppamento con altri operatori economici, e che essa censuri la congruità del personale da riassumere obbligatoriamente anche in relazione alle modificazioni dell’oggetto contrattuale rispetto alla gestione in corso. In tal quadro non può negarsi l’interesse della ricorrente a contestare la clausola sociale da rispettare in sede di esecuzione del contratto che verrà stipulata all’esito della nuova procedura di gara.
5.2. - È necessario partire dal rilevare che la Mengozzi s.p.a. formula una duplice serie di premesse alla sua doglianza evidenziando, da un lato, come la “clausola sociale” in contestazione presenti la peculiarità di imporre all’aggiudicatario, in sede di esecuzione contrattuale, “l’assunzione di tutto il personale attualmente <in forza all’appalto> (47 unità), indicandone il numero, l’inquadramento, e l’orario nell’allegato C1 del capitolato” e, dall’altro lato, che la invarianza di personale da impiegare è da garantire pur in presenza di un oggetto della selezione modificato “per effetto di riduzioni sia del numero dei Presidi Ospedalieri (sono esclusi dalla presente gara gli Ospedali di Massa, Lucca, Pistoia e Prato, come evidenziato nel capitolato, presenti invece nella precedente gara)” come pure delle prestazioni da eseguire. È importante porre in evidenza come entrambe le premesse risultano sostanzialmente confermate da ESTAR, ente cui è rimessa la predisposizione e gestione della gara. In relazione alla prima premessa nella sua memoria ESTAR rileva (e lo stesso vale per Regione Toscana) come la “clausola sociale” sia stata il frutto di negoziazione con le organizzazioni sindacali, che ha portato ad un Protocollo d’Intesa del 7.4.2015, dal quale è scaturito un confronto anche in relazione alla presente gara, all’esito del quale “è emersa l’esigenza di garantire la stabilità occupazionale di tutto il personale già impiegato nell’appalto, dato il quadro economico complessivo ancora fortemente negativo e considerato anche che il servizio in discussione, avendo ad oggetto la raccolta ed il trasporto di rifiuti, si caratterizza per prestazioni scarsamente specializzate (il che rende particolarmente difficile per i lavoratori trovare una nuova collocazione lavorativa)”. Quanto alla seconda premessa ESTAR non contesta la riduzione del numero dei presidi serviti rispetto al servizio in essere ma pone in evidenza come “lo stralcio di quattro presidi ospedalieri rispetto al precedente servizio cui controparte fa riferimento non preclude il proficuo reimpiego delle 25 unità di personale in discussione”, cioè quelle ritenute eccedenti da parte ricorrente; aggiunge ESTAR che poi “è ben possibile – ed è anzi prevedibile, atteso quanto accaduto anche nel corso del servizio pregresso – che detto servizio varrà via via esteso anche ad altri istituti ed enti”.
5.3 – Anche sulla valutazione del corretto inquadramento giuridico della “clausola sociale” come emergente dalla giurisprudenza e dalla prassi di vigilanza anteriore alla disciplina oggi vigente (cioè risultante dalla direttiva 2014 e dal Codice del 2016) le parti convengono. La società ricorrente infatti richiama la giurisprudenza amministrativa che ha escluso che la “clausola sociale” possa comportare in forma automatica e generalizzata l’obbligo di assunzione del personale uscente, dovendo essa essere armonizzata con la libertà di organizzazione dell’imprenditore (Cons. St, sez. 3^, n. 1255/2016; 5598/15; 4274/15; 2637/15), nonché i pareri ANAC che hanno evidenziato che la “clausola sociale” deve solo comportare priorità nell’assorbimento del personale uscente, mentre non può comportare obbligo di integrale assorbimento (pareri n. 41 del 2013 e 40 del 2014). ESTAR nella propria memoria afferma di non ignorare “l’orientamento giurisprudenziale invocato ex adverso che, in passato, ha frequentemente ravvisato un limite alla possibilità delle stazioni appaltanti di porre clausole sociali vincolanti nella libertà di impresa e di autonomia imprenditoriale”. ESTAR evidenzia tuttavia (e lo stesso ragionamento è svolto da Regione Toscana) che “non si può trascurare che, in tempi più recenti, il quadro normativo (anche europeo) è andato mutando, sviluppandosi principi ed orientamenti di senso opposto, che – a parere delle Amministrazioni resistenti – giustificano oggi una maggiore tutela dei lavoratori”.
5.4 – Alla luce delle considerazioni svolte il punto del contendere risulta dunque in parte circoscritto. La tesi di parte ricorrente è che tanto con richiamo alla giurisprudenza formatasi in passato (e alla corrispondente prassi di ANAC) tanto in applicazione della più recente disciplina interna ed europea la “clausola sociale” così come formulata nella presente gara sia illegittima. A ciò si contrappone la lettura delle resistenti, secondo cui la disciplina di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 50 del 2016 e la normativa europea di cui esso costituisce attuazione, innovando rispetto al quadro disciplinare previgente, porta oggi a ritenere legittima una clausola, come quella in esame, che impone all’aggiudicatario della gara un rigido obbligo di conservazione delle manodopera già impiegata nel pregresso servizio, ancorché in parte modificato.
Il Collegio ritiene che la censura in esame sia fondata.
Lo stato della interpretazione giurisprudenziale, peraltro pacificamente ricostruito dalle parti in causa, può essere sintetizzato, richiamando la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato n. 1255 del 2016, nel modo che segue: a) la “clausola sociale” deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione; b) conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante; c) la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria .(cfr. Cons. Stato, III, n. 1896/2013). Alla luce di tale interpretazione la clausola di cui alla presente controversia, congiuntamente letta dalle parti come tale da imporre in termini rigidi la conservazione del personale di cui al precedente appalto, risulta illegittima, dovendo invece essa essere formulata in termini di previsione della priorità del personale uscente nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante (in termini la sentenza della Sezione n. 1426 del 2016 nonché la sentenza della Prima Sezione di questo TAR n. 261 del 2016). Un tale esito interpretativo non cambia anche tenendo conto della normativa più recente, applicabile alla presente fattispecie, come sostenuto da parte ricorrente. Il primo riferimento deve essere alla direttiva 24/2014/UE invocata da parte resistente; seppur in essa sia sicuramente riscontrabile una specifica attenzione alle esigenze sociale, cui anche le commesse pubbliche possono essere funzionali, non pare tuttavia che se ne possano ricavare indirizzi specifici nel senso sostenuto dalle resistenti stesse; il secondo <considerando> della direttiva citata si limita a prevedere un utilizzo delle procedure di gara “per sostenere il conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale”, l’art. 18, comma 2, della medesima direttiva prevede l’obbligo degli Stati membri di garantire nell’esecuzione degli appalti il rispetto degli obblighi sociale e del lavoro e l’art. 70 stabilisce che nell’esecuzione dell’appalto possono trovare spazio considerazioni sociali o relative all’occupazione; si tratta di previsioni di sicura importanza e tali da trovare esplicazione anche nella “clausola sociale” qui esaminata, tuttavia senza che le stessi arrivino a giustificare o imporre una clausola sociale di tenore forte (che impone l’obbligo rigido di riassunzione) come ritenuto dalle resistenti. D’altra parte l’art. 50 del d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina specificamente la “clausola sociale” in applicazione della disciplina europea e che ha un contenuto più specifico dell’art. 69 del d.lgs. n. 163 del 2006, contiene sì la specifica previsione del “possibile” inserimento nei bandi di gara della suddetta clausola, affermando che essa mira a “promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato”, ma “nel rispetto dei principi dell’Unione Europea”. Ad avviso del Collegio si tratta di disciplina normativa che non innova, ed anzi sussume nel testo di legge i risultati cui era giunta la giurisprudenza, giacché la “stabilità occupazionale”, che è sicuramente un obiettivo normativo importante e un valore ordinamentale, deve essere “promossa” e non rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i principi europei della libera concorrenza e della libertà d’impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia necessaria della stabilità, pur in presenza di variato ambito oggettivo del servizio a gara.
5.5 – Si impone al Collegio un ulteriore profilo motivazionale, a conferma delle conclusioni raggiunte, in risposta ai rilievi svolti da entrambe le parti resistenti nelle memorie finali, con richiamo da parte di entrambe alla recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. 5^, n. 2433 del 2016, ritenuta dalle stesse di tenore tale da confermare gli assunti difensivi delle resistenti medesime. Ad avviso delle resistenti tale sentenza si sarebbe pronunciata a favore della legittimità di una clausola che preveda il riassorbimento di tutto il personale uscente, anche in ipotesi in cui tale personale non sia necessario per l’appalto in considerazione, potendo il personale in eccesso essere utilizzato in altre commesse facenti capo allo stesso operatore economico. In realtà nella citata sentenza il giudice d’appello non sembra affrontare il tema della legittimità della “clausola sociale” che imponga l’integrale riassorbimento di tutto il personale impiegato dall’operatore economico uscente, giacché non risulta che la clausola sociale sia stata fatta oggetto di impugnazione in quel giudizio, ma si occupa del giudizio di anomalia dell’offerta dell’aggiudicatario di una procedura di concessione; l’appellante sostiene che l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere giudicata anomala “perché non recante l’utilizzo di tutti e 13 gli addetti al servizio da essa impiegati nella precedente gestione”, riutilizzo integrale imposto, tra l’altro, dalla “clausola sociale” presente nel disciplinare di gara; il Consiglio di Stato, risolvendo tale questione, afferma invece che l’aggiudicataria ha prestato alla clausola sociale “piena osservanza, assumendo l’impegno di assumere alle proprie dipendenze tutto il personale impiegato dall’odierna appellante nella precedente gestione”, non costituendo violazione della suddetta clausola “il fatto che la cointrointeressata non ne abbia confermato l’integrale destinazione al medesimo servizio, ma ad altri svolti in aree limitrofe, per dichiarate ragioni di economia della gestione”; appare dunque chiaro che la evocata sentenza non affronta il tema della legittimità della “clausola sociale” presa in esame, che non costituisce oggetto del pronunciamento del giudice d’appello, ma si occupa invece delle modalità di sua esecuzione, ritenendo che l’adempimento a quanto imposto dalla clausola sociale (reimpiego di lavoratori della pregressa gestione) possa avvenire anche in servizi diversi da quello originario. Non ritiene quindi il Collegio che la citata sentenza del giudice d’appello sia idonea a modificare le conclusioni raggiunte.
5.6 – Concludendo dunque sul profilo di censura in esame, esso deve essere accolto, con annullamento degli atti impugnati, limitatamente al disposto di cui all’art. 9.6. del Capitolato nella parte in cui prevede il necessario mantenimento dei livelli occupazionali di cui all’allegato C1 e all’art. 14 dello schema di convenzione ove richiama il suddetto art. 9.6 cit., con riformulazione da parte della stazione appaltante del contenuto della “clausola sociale”, ai fini della esecuzione del contratto, in conformità ai principi giurisprudenziali richiamati nella motivazione della presente sentenza.
6 – Con un secondo profilo di doglianza, sempre in seno al primo motivo di ricorso, la società ricorrente contesta l’art. 9.6. del capitolato laddove lo stesso prevede che l’aggiudicatario deve applicare il contratto che presenta le “migliori condizioni” fra i vigenti contratti collettivi di settore, ritenendo che in tal modo sia violato l’art. 50 d.lgs. n. 50 del 2016, imponendo l’applicazione di uno specifico CCNL di settore, quello che presenti le “migliori condizioni”, invece di uno dei contratti vigenti ed evidenziando altresì che non sussiste uno specifico un contratto collettivo del settore in considerazione.
La censura è infondata.
Sul punto è sufficiente evidenziare che l’Amministrazione ha invero pubblicato un chiarimento, a mezzo del quale ha esplicitato che la formula della norma di Capitolato, laddove fa riferimento al contratto che “presenta le migliori condizioni”, deve essere intesa come riferentesi ad uno dei contratti collettivi applicabili in relazione al settore e alla zona d’interesse. La previsione di Capitolato, depurata attraverso il chiarimento del profilo di equivocità che poteva avere, risulta quindi conforme alla disciplina normativa.
7 – Con il secondo motivo di ricorso la Mengozzi s.p.a. contesta la base d’asta come predisposta dalla stazione appaltante, che presuppone un prezzo di € 1,38/kg per rifiuti sanitari a rischio infettivo, del 20% più basso dei prezzi correnti e delle aggiudicazioni similari, così come indicati dalla stessa ricorrente, anche perché ulteriormente abbattuto dal passaggio del pagamento del prezzo da peso lordo a peso netto.
La censura è infondata.
Le gare che la ricorrente indica, e in seno alle quali l’appalto è stato bandito a prezzi più elevati, sono riferiti a procedure indette da aziende sanitarie di dimensioni assai più modeste di quella in esame, quindi con volumi di rifiuti minori, mentre nella specie si è in presenza di importi quantitativi assai elevati nell’ambito dei quali i costi possono essere assai meglio ammortizzati. D’altra parte la Mengozzi si è aggiudicata un appalto similare al presente, in Regione Emilia Romagna, al prezzo di € 0,93 al kg, a dimostrazione della sostenibilità del prezzo qui praticato. D’altra parte il pagamento al netto del peso del contenitore è modalità riferita solo ai rifiuti sanitari a rischio infettivo che vengono raccolti con contenitori riutilizzabili, mentre in caso di utilizzo di monouso la fatturazione è prevista al peso lordo.
8 – Conclusivamente il ricorso deve essere accolto solo in parte, ai sensi del precedente punto 5.6. della presente motivazione. L’accoglimento parziale giustifica la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione Terza, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi e per gli effetti di cui in motivazione, con conseguente annullamento dell’art. 9.6. del Capitolato, limitatamente alla parte in cui prevede il necessario mantenimento dei livelli occupazionali di cui all’allegato C1, e dell’art. 14 dello schema di Convenzione, ove richiama il suddetto art. 9.6 cit.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Riccardo Giani, Consigliere, Estensore
Giovanni Ricchiuto, Primo Referendario
Corte di Cassazione, sez. II civ., 30 gennaio 2017, n. 2294
Studio GroenlandiaREPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAZZACANE Vincenzo - Presidente
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere
Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere
Dott. ABETE Luigi - rel. Consigliere
Dott. SCARPA Antonio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 11585 - 2013 R.G. proposto da:
(OMISSIS) - c.f. (OMISSIS) - rappresentato e difeso in virtu' di procura speciale in calce al ricorso dall'avvocato (OMISSIS) ed elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS).
- ricorrente -
contro
(OMISSIS) e (OMISSIS) rappresentati e difesi in virtu' di procura speciale in calce al controricorso dall'avvocato (OMISSIS) ed elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);
- controricorrenti -
Avverso la sentenza n. 227 dei 30.1/15.2.2013 della corte d'appello di Palermo;
Udita la relazione della causa svolta all'udienza pubblica del 19 ottobre 2016 dal consigliere Dott. Abete Luigi;
Udito l'avvocato (OMISSIS) per il ricorrente;
Udito l'avvocato (OMISSIS), per delega dell'avvocato (OMISSIS), per i controricorrenti;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato in data 8.2.2005 (OMISSIS) e (OMISSIS) citavano a comparire innanzi al tribunale di Palermo (OMISSIS).
Esponevano che con atto per notar (OMISSIS) del 23.5.2002 avevano acquistato dal (OMISSIS) un immobile facente parte di una palazzina bifamiliare suddivisa in due porzioni verticali, in Palermo, alla localita' "(OMISSIS)"; che nel mese di maggio del 2003 avevano constatato la presenza al piano terra di forte umidita' da risalita capillare e ne avevano vanamente fatto denuncia al venditore; che successivamente avevano dato incarico ad un tecnico di loro fiducia, il quale aveva concluso nel senso che la causa dell'umidita' era da individuare nella inadeguata ovvero nell'omessa esecuzione di taluni lavori; che avevano formulato istanza di accertamento tecnico preventivo nell'ambito del quale si era fatto luogo a consulenza tecnica.
Chiedevano che il convenuto fosse condannato a pagar loro la somma di Euro 35.272,14, quale importo corrispondente al costo per l'esecuzione dei lavori necessari al fine di conseguire la licenza di abitabilita' dell'immobile.
Si costituiva il convenuto.
Eccepiva pregiudizialmente la prescrizione dell'azione ex adverso esperita; in ogni caso instava per il suo rigetto.
Con sentenza n. 5623/2008 il tribunale adito, qualificata l'istanza attorea in guisa di domanda di adempimento ex articolo 1453 c.c., reietta l'eccezione di prescrizione, condannava il convenuto al pagamento dell'importo richiesto e delle spese di lite.
Interponeva appello (OMISSIS).
Resistevano (OMISSIS) e (OMISSIS).
Con sentenza n. 227 dei 30.1/15.2.2013 la corte d'appello di Palermo rigettava il gravame e condannava l'appellante alle spese del grado.
Premetteva la corte di merito che, in virtu' della prospettazione quale risultante dal testo e dalle conclusioni della rinnovata citazione, gli attori avevano invocato il ristoro dei danni correlati, tra l'altro, all'inadempimento del generale obbligo gravante sul convenuto di dotare l'immobile compravenduto del certificato di abitabilita'.
Premetteva altresi' che il difetto del certificato di abitabilita', siccome atto a risolversi nella mancanza di un requisito giuridico essenziale, configurava ipotesi di vendita di aliud pro alio, legittimante l'acquirente all'esercizio dell'azione risarcitoria, la cui prescrizione, nel caso di specie, era ben lungi dall'esser giunta a compimento.
Premetteva inoltre che la pattuizione di cui all'articolo 6 del contratto di compravendita in ogni caso consacrava - l'impegno assunto dal venditore di sostenere ogni pagamento necessario per il rilascio del relativo certificato di abitabilita', a nulla rilevando che nel contratto sia stata inserita la locuzione "pagamento eventualmente richiesto dal comune di Palermo"" (cosi' sentenza d'appello, pag. 6).
Indi esplicitava che, alla stregua delle coincidenti risultanze della consulenza di parte allegata dagli originari attori e non contestata dall'appellante e della consulenza tecnica disposta in sede di a.t.p., si era riscontrato che l'immobile compravenduto era interessato da un fenomeno di umidita' di vaste proporzioni, non circoscritto al piano seminterrato ma esteso pur ai locali a piano terra destinati a civile abitazione, sicche' non era conforme alle disposizioni del locale regolamento di igiene e non poteva "ottenere il rilascio del certificato di abitabilita'" (cosi' sentenza d'appello, pag. 7).
Esplicitava ancora che non avevano alcun rilievo la circostanza per cui la procedura finalizzata al rilascio del certificato di abitabilita' aveva avuto inizio e "non era pervenuta al suo sbocco naturale, per inefficienze della pubblica amministrazione" (cosi' sentenza d'appello, pag. 8) ovvero la circostanza per cui gli appellati acquirenti non avevano "ottenuto alcun diniego da parte della pubblica amministrazione" (cosi' sentenza d'appello, pag. 7); che invero il rilascio dell'abitabilita' non poteva essere procrastinato sine die e, d'altra parte, il certificato allo stato non era stato rilasciato, il che legittimava la richiesta risarcitoria per la vendita di aliud pro alio.
Esplicitava infine che era del tutto inammissibile la perizia prodotta in sede di gravame dall'appellante merce la quale si ambiva a dimostrare che il mancato rilascio della licenza di abitabilita' era da ascrivere ad un abuso edilizio commesso dagli appellati.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS); ne ha chiesto sulla scorta di tre motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.
(OMISSIS) e (OMISSIS) hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l'avverso ricorso con il favore delle spese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell'articolo 345 c.p.c.; ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
Deduce che la corte distrettuale ha del tutto omesso l'esame della richiesta di prova testimoniale all'uopo formulata e si e' limitata a reputare inammissibile la produzione della perizia giurata a firma del tecnico che aveva incaricato onde perfezionare la pratica per il rilascio della licenza di abitabilita' dell'immobile.
Deduce segnatamente che l'esame della perizia e l'ammissione della prova per testimoni "avrebbero consentito di accertare che il mancato rilascio della concessione in sanatoria e della dichiarazione di abitabilita' dell'immobile non erano dipesi dai difetti riscontrati a cui la stessa Corte aveva ricollegato l'inadempimento del venditore ed il correlato risarcimento ma dall'inerzia del Comune prima e dalla difformita' riscontrata poi tra il progetto in sanatoria e l'immobile a causa del nuovo volume realizzato dall'acquirente" (cosi' ricorso, pag. 8).
Deduce dunque che la corte di Palermo non ha enunciato le ragioni per le quali non era da applicare l'articolo 345 c.p.c., nella parte in cui consente l'ammissione di nuovi mezzi di prova, qualora il collegio li reputi indispensabili ai fini della decisione.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell'articolo 1495 c.c., la falsa applicazione dell'articolo 1453 c.c., la violazione dell'articolo 2697 c.c..
Deduce che gli attori non hanno dato prova alcuna della circostanza per cui il mancato rilascio della licenza di abitabilita' dipendeva dalle infiltrazioni di umidita' nel piano cantinato.
Deduce ancora che si e' al cospetto di un'ipotesi di garanzia per vizi della cosa venduta in relazione alla quale vi e' stata prescrizione della relativa azione in dipendenza del decorso del termine di un anno dalla consegna.
Deduce ulteriormente che del tutto incongruo il riferimento al regolamento di igiene e sanita' del comune di Palermo, atteso che non riguarda i piani cantinati.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell'articolo 91 c.p.c..
Deduce che le spese di lite andavano poste a carico degli appellati in ossequio al principio della soccombenza.
I motivi di ricorso sono strettamente connessi.
Se ne giustifica pertanto la contestuale disamina.
Tutti comunque sono privi di fondamento.
Va debitamente premesso che, in materia di vendita di immobile destinato ad abitazione, questa Corte spiega che integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilita' ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica (cfr. Cass. 27.7.2006, n. 17140).
E soggiunge che il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilita', senza il quale l'immobile stesso e' incommerciabile; e che la violazione di tale obbligo puo' legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento, e non e' sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia gia' presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarita' amministrativa dell'immobile (cfr. Cass. 23.1.2009, n. 1701; cfr. Cass. 20.4.2006, n. 9253, ove si precisa inoltre che e' irrilevante la concreta utilizzazione dell'immobile ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari).
In questi termini del tutto ingiustificato e' l'assunto del ricorrente secondo cui - la fattispecie e' stata ricondotta forzatamente nell'alveo dell'articolo 1453 c.c., allo scopo di superare l'intervenuta decadenza sancita dall'articolo 1495 c.c. (cosi' ricorso, pag. 10).
Nel quadro dell'operata ineccepibile qualificazione della concreta fattispecie e nel solco per giunta della pattuizione di cui all'articolo 6 del contratto di compravendita, atta a consacrare l'obbligo del venditore di sostenere ogni pagamento necessario allo scopo del rilascio del certificato di abitabilita', e' ben evidente che le censure che il primo ed il secondo mezzo di impugnazione concorrono a veicolare, afferiscono, in fondo, al giudizio -di fatto" cui la corte territoriale ha atteso ai fini dell'accertamento delle condizioni eventualmente atte, in chiave eziologica, ad ostacolare il conseguimento del medesimo certificato ("l'accordato risarcimento e' stato ricollegato dal punto di vista causale ad un elemento del tutto indimostrato": cosi' ricorso, pag. 8: l'abitabilita' non era stata ancora "accordata per l'inerzia del Comune e per la costruzione abusiva realizzata dagli acquirenti": cosi' ricorso, pagg. 8 - 9: "il tecnico incaricato non aveva potuto definire l'iter della pratica volta al rilascio del certificato di abitabilita' a causa del nuovo volume realizzato dagli acquirenti": cosi' ricorso, pag. 10).
Su tale scorta si rappresenta che la statuizione impugnata e' - siccome dei 30.1/15.2.2013 - soggetta alle novita' introdotte con il Decreto Legislativo n. 83 del 2012, convertito nella L. n. 134 del 2012, ed applicabili alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione.
Conseguentemente il vizio motivazionale che precipuamente il primo ed il secondo mezzo di impugnazione sostanzialmente adducono, rileva nei limiti della novella formulazione dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ("per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e' stato oggetto di discussione tra le parti").
In tal guisa, evidentemente, riveste valenza l'insegnamento delle sezioni unite di questa Corte di legittimita' (il riferimento e' a Cass. sez. un. 7.4.2014, n. 8053).
Ovvero l'insegnamento secondo cui, da un canto, la riformulazione dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (disposta dal Decreto Legislativo 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134) deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'articolo 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimita' sulla motivazione, sicche', e' denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in se', purche' il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; e secondo cui, propriamente, tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella - motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.
Ovvero l'insegnamento secondo cui, dall'altro, il riformulato articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli articoli 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4), il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il - come" e il "quando - tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua - decisivita'", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per se', il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorche' la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nei termini esposti si rappresenta altresi' quanto segue.
Per un verso, che e' da escludere recisamente che taluna delle figure di "anomalia motivazionale" destinate ad acquisire significato alla luce dell'indicazione nomofilattica a sezioni unite teste' menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni - dapprima riferite - cui la corte d'appello ha ancorato il suo dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione -apparente" - che ricorre allorquando il giudice di merito, pur individuando nel contenuto della sentenza gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento, non procede ad una loro approfondita disamina logico - giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) - la corte distrettuale ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il percorso argomentativo seguito ("dalla perizia giurata versata in atti, (...) le cui conclusioni coincidono (...) con quelle del consulente nominato in sede di a.t.p., emerge che l'immobile non e' conforme alle norme del regolamento locale di igiene, sicche' non puo' ottenere il rilascio del certificato di abitabilita'".. cosi' sentenza d'appello, pag. 7).
Per altro verso, che la corte siciliana ha sicuramente disaminato il fatto storico caratterizzante la res litigiosa (insussistenza delle condizioni necessarie per ottenere il rilascio del certificato di abitabilita' in dipendenza della presenza di un fenomeno di umidita' di ampie proporzioni).
Del resto, nella fattispecie il ricorrente censura l'(asserita) erronea valutazione delle risultanze istruttorie ("la Corte ha ritenuto provata la ricorrenza della fattispecie di cui all'articolo 1453 c.c. sulla base di un presupposto eventuale e del tutto indimostrato: e cioe' che il mancato rilascio dell'abitabilita' dipendesse dalle infiltrazioni di umidita' presenti nel piano cantinato: cosi' ricorso, pag. 10) e l'omesso riscontro della prova documentale, di segno a se' favorevole, e della prova testimoniale, l'una e l'altra ritualmente offerte, siccome indispensabili, con l'atto di gravame.
E tuttavia a tali riguardi si rappresenta ulteriormente quanto segue.
Innanzitutto, che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da' luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), ne' in quello del precedente n. 4), disposizione che - per il tramite dell'articolo 132 c.p.c., n. 4), - da' rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
Altresi', che la consulenza tecnica di parte costituisce, si', una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di autonomo valore probatorio, sicche' la sua produzione, in quanto sottratta al divieto di cui all'articolo 345 c.p.c., e' ammissibile anche in appello (cfr. in tal senso Cass. sez. un. 3.6.2013, n. 13902); cio' nondimeno, la motivazione della sua ininfluente valenza - al pari, viepiu', della motivazione di rigetto di una qualsivoglia istanza istruttoria (cfr. Cass. 16.6.1990, n. 6078) - non deve essere necessariamente data in maniera esplicita, potendo la stessa ratio decidendi, che ha risolto il merito della lite, valere da implicito disconoscimento della sua rilevanza.
E cio', in verita', a prescindere dal rilievo per cui, in ossequio al canone di cosiddetta -autosufficienza" del ricorso per cassazione (cfr. Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980), quale positivamente sancito all'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6), ben avrebbe dovuto il ricorrente, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro, il compiuto vaglio del suo assunto, riprodurre piu' o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo della perizia giurata.
Inoltre, che l'ammissione in grado d'appello della prova testimoniale (a mezzo del teste (OMISSIS)) ne postulava - ratione temporis - l'indispensabilita' ai fini della decisione ed, ancor prima, la novita'.
In tal guisa occorre tener conto che non puo' reputarsi nuova ex articolo 345 c.p.c., la prova gia' indicata in primo grado.
Di conseguenza, parimenti in ossequio al canone di cosiddetta -autosufficienza" del ricorso per cassazione, ben avrebbe dovuto il ricorrente, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro in primo luogo della novita' dell'invocata prova testimoniale, riprodurre integralmente i capitoli della prova testimoniale sollecitata in prime cure e ritenuta superflua dal primo giudice, allorche' ebbe a rinviare per la precisazione delle conclusioni (l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimita' ove sia denunciato un error in procedendo - e' il caso del profilo de quo agitur - presuppone che la parte, nel rispetto del principio di "autosufficienza", riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale: cfr. Cass. 30.9.2015, n. 19410).
E cio' tanto piu' che nelle conclusioni formulate in grado di appello parte appellata ebbe a chiedere, tra l'altro, di "dichiarare inammissibili perche' non reiterate nelle conclusioni formulate nel giudizio di primo grado le istanze istruttorie avanzate in primo grado dal convenuto e riproposte nell'atto di appello" (cosi' sentenza d'appello, pagg. 2 - 3; cfr. Cass. 19.8.2002, n. 12241" secondo cui non puo' reputarsi nuova ex articolo 345 c.p.c., la prova gia' indicata e rinunciata in primo grado).
In ogni caso, che l'articolato capitolo di prova (cfr. ricorso, pagg. 5 - 6) risulta indiscutibilmente "generico e valutativo" in rapporto al suo passaggio essenziale ("ho verificato gia' dall'esterno una difformita' relativa alla realizzazione di un nuovo volume") (cfr. Cass. 12.10.2011, n. 20997, e Cass. 9.5.1996, n. 4370).
La condanna alle spese e del primo e del secondo grado di (OMISSIS) appieno si e' legittimata in dipendenza della sua soccombenza (cfr. Cass. 18.10.2001, n. 12758, secondo cui la condanna al pagamento delle spese processuali e' una conseguenza legale della soccombenza, che a sua volta va individuata tenendo presente la statuizione espressa nella sentenza, esaminata in relazione alle domande formulate dall'attore e dal convenuto, nonche' alle conclusioni precisate a verbale).
Del tutto ingiustificato e' percio' l'assunto di cui al terzo motivo.
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita'. La liquidazione segue come da dispositivo.
Si da' atto che il ricorso e' stato notificato in data 26.4.2013.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, a decorrere dall'1.1.2013), si da' atto altresi' della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, (OMISSIS), dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, (OMISSIS), a rimborsare ai controricorrenti, (OMISSIS) e (OMISSIS), le spese del presente giudizio di legittimita', che si liquidano nel complesso in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da' atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 bis.
Corte di Cassazione, sez. II civ., 14 febbraio 2017, n. 3892
Studio GroenlandiaREPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Presidente
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere
Dott. FEDERICO Guido - rel. Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere
Dott. SABATO Raffaele - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27011/2012 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
CONDOMINIO (OMISSIS), P.I. (OMISSIS) IN PERSONA DEL SUO AMM.RE E LEGALE RAPP.TE P.T., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 4499/2011 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 26/10/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2017 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO;
udito l'Avvocato (OMISSIS) difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento del ricorso e deposita nota spese;
udito l'Avv. (OMISSIS) difensore del controricorrente che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l'accoglimento, per quanto di ragione, del primo, secondo e terzo motivo, l'assorbimento del quarto motivo, in subordine il rigetto del ricorso.
ESPOSIZIONE DEL FATTO
L'ing. (OMISSIS) propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, nei confronti del condominio "(OMISSIS)" di (OMISSIS), avverso la sentenza n. 4499/2011 della Corte d'Appello di Roma, pubblicata il 26 ottobre 2011, con la quale in riforma della sentenza di primo grado, sono state respinte le contrapposte domande di condanna ed interamente compensate le spese di lite tra le parti.
La Corte, per quanto qui ancora interessa, avuto riguardo alla reiezione della domanda, avanzata dal ricorrente in qualita' di amministratore del condominio su menzionato, di pagamento del proprio compenso, ha affermato che dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilita' che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, consentendo in modo puntuale la verifica dei documenti giustificativi, onde non era possibile ricostruire l'andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati, per fatto imputabile all'amministratore, tra i cui doveri rientrava quello di corretta tenuta della contabilita'.
La Corte concludeva dunque che la mancata prova del pagamento del compenso dell'amministratore, derivante dalla mancanza di una regolare tenuta della contabilita', imputabile a quest'ultimo, non poteva pregiudicare le ragioni del condominio.
Il condominio resiste con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denunzia la contraddittorieta' ed insufficienza della motivazione in relazione all'articolo 360, n. 5) codice di rito, censurando la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto che la mancata prova del proprio compenso derivasse dall'omessa redazione dei rendiconti da parte dello stesso ricorrente, deducendo di aver depositato agli atti di causa, seppur tardivamente, tutta la documentazione contabile, compreso il giornale di cassa completo. Con il secondo motivo si denunzia carenza motivazionale ex articolo 360 c.p.c., n. 5), per l'omessa valutazione, nella sentenza impugnata, della mancata contestazione da parte del Condominio dell'esistenza del debito nei confronti dell'amministratore, nonche' delle risultanze delle due consulenze tecniche espletate nel giudizio di primo grado, che avevano rilevato l'esistenza di un credito del (OMISSIS) di Lire 16.348.432.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. in relazione all'articolo 360, n. 3) codice di rito, per aver omesso di rilevare che, a fronte della prova, fornita dall'amministratore, della fonte del proprio credito, il condominio non aveva adempiuto all'onere di provare il fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'adempimento. Con il quarto motivo, si denunzia la violazione di legge in relazione alla data di decorrenza degli interessi legali per il proprio credito, nonche' ai criteri di regolazione delle spese di lite.
In Diritto:
I primi tre motivi, che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono destituiti di fondamento.
La Corte d'appello ha infatti ritenuto con valutazione di merito che, in quanto logicamente argomentata non e' sindacabile nel presente giudizio, che non fosse stata raggiunta la prova del credito relativo al proprio compenso vantato dall'amministratore del condominio.
In particolare, non e' controversa la mancanza di una contabilita' regolare che registrasse cronologicamente le operazioni riguardanti la vita del condominio e che quindi consentisse la verifica dei documenti e dunque la giustificazione delle entrate ed uscite della gestione dell'ente condominiale, ne' risulta che sia mai stata adottata, negli anni in contestazione, la delibera di approvazione del rendiconto dell'amministratore da parte dell'assemblea dei condomini ex articolo 1130 c.c..
La contabilita' presentata dall'amministratore del condominio, seppure non dev'essere redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle societa', deve pero' essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e cioe' tale da fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi dell'entita' e causale degli esborsi fatti, e di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalita' con cui l'incarico e' stato eseguito, nonche' di stabilire se l'operato di chi rende il conto sia uniformato a criteri di buona amministrazione (Cass. 9099/2000 e 1405/2007).
In assenza di tale adempimento, il credito dell'amministratore non puo' ritenersi provato.
Nell'ipotesi di mandato oneroso, infatti, il diritto del mandatario al compenso ed al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute e' condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale (Cass. 3596/1990).
Ed invero, solo la deliberazione dell'assemblea di condominio che procede all'approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall'amministratore ha valore di riconoscimento di debito in relazione alle poste passive specificamente indicate (Cass. 10153/2011), cosi' come dalla delibera dell'assemblea condominiale di approvazione del rendiconto devono risultare le somme anticipate dall'amministratore nell'interesse del condominio (Cass. 1286/1997) non potendo in caso contrario ritenersi provato il relativo credito.
Attesa dunque la situazione di mancanza di una contabilita' regolare e della stessa predisposizione ed approvazione del rendiconto annuale di gestione dell'amministratore, la ricostruzione ex post da parte del Ctu, sulla base di una verifica documentale a campione, non appare idonea a fondare la prova del credito del ricorrente, che puo' essere desunta in modo attendibile dalla sola determinazione dell'ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi.
Va altresi' respinta la dedotta violazione del principio di non contestazione, denunziata dal ricorrente, in quanto la mancata riproduzione o richiamo specifico agli atti difensivi della controparte nel giudizio di primo grado, in ossequio alla c.d. autosufficienza del ricorso, non consente a questa Corte di valutare, nei suoi esatti termini, il dedotto comportamento di non contestazione del condominio, che nel caso di specie risulta contraddetto dallo stesso tenore della domanda introduttiva del presente giudizio (restituzione da parte dell'amministratore del saldo della cassa condominiale).
Non e' inoltre pertinente il riferimento del ricorrente al principio secondo il quale, in sede di responsabilita' contrattuale, il creditore deve soltanto provare la fonte dell'obbligazione, limitandosi ad allegare l'inadempimento della controparte, atteso che in materia di condominio, sulla base della disposizione dell'articolo 1130 c.c., il credito dell'amministratore, come del resto ogni posta passiva, deve risultare dal rendiconto (redatto secondo il principio della specificita' delle partite ex articoli 263 e 264 c.p.c.) approvato dall'assemblea, sulla base di una regolare tenuta della contabilita', si' da rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di spesa e di valutare in modo consapevole l'operato dell'amministratore.
La reiezione dei primi tre motivi assorbe il quarto.
Il ricorso va dunque respinto ed il ricorrente va condannato alla refusione delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Respinge il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in 2.400,00 Euro, di cui 200,00 Euro per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.